sabato 11 agosto 2018

12 agosto 1946. Il gatto e le anime



Da quando ti avevo fatto diventare un mio personaggio, a Passo Sant'Ugo non ti ho incontrato più. Perciò mi sono stupito, quando ieri pomeriggio, uscito dal portone di casa, ti ho visto in attesa, all'inizio del vicolo dove stanno Biba e Pascià. Non mi hai detto niente, non avresti potuto, ti sei voltato e messo in cammino, ho capito di doverti seguire. Come nel romanzo.
E così ti ho seguito, in cima a vico Falamonica hai attraversato la strada con la sicurezza di quelli come te e nessuno si sorprendeva di vederti in centro, a farmi strada, nel caos del sabato estivo a piazza De Ferrari: allora ho capito che ti vedevo soltanto io, che in realtà non c'eri, oppure c'eri solo per me. Forse qualcuno di quelli che aveva letto il romanzo era arrivato a capire che non eri un gatto, o meglio lo eri, ma nel gatto c'era come il ricordo dell'amico che eri stato, la speranza di poterti parlare ancora, il dispiacere di non avere vissuto insieme quel Natale alla fine di maggio.
Pensavo volessi portarmi allo stadio, visto che all'indomani la mia, la nostra ragazza avrebbe festeggiato il compleanno. Ma all'altezza della scuola tecnica dove una volta c'era la Bocciardo ho visto che hai tirato dritto, nel caldo opprimente facevo fatica a tenere il tuo passo. Poi, davanti al grande ingresso ottocentesco, mi hai guardato e a tuo modo salutato, per sparire un'altra volta. Sparire e riapparire è una cosa da gatti. E ha sempre un significato.
E così sono entrato, anche se meno di mezz'ora dopo avrebbero chiuso il cancello. Nella grande città del silenzio non ho nessuno dei miei vecchi, sono tutti a Levante tra Arzeno e San Bertumé, qui ho solo legami che mi ha dato la vita, a volte più profondi e duraturi di quelli imposti dal sangue. E allora ho sperato che tu mi seguissi, ma in fondo al grande viale dopo la statua c'era un altro come te, stavolta un soriano, ma se n'è andato subito, tanto la strada la sapevo, forse eri di nuovo tu che volevi sincerarti che non me ne fossi andato. Ma lo sai che io è da quando sono bambino che cerco di parlare con quelli con cui non si può parlare, per far loro domande, per avere risposte, anche solo un piccolo conforto, un senhal, un silenzio che dica qualcosa. È un sentimento che affiora nelle cose che scrivo, un moto dell'animo che rimanda alla cultura yiddish, dove i vivi e i morti si intrattengono insieme e quasi sempre i morti sono più vivi dei vivi, perché hanno già vissuto, hanno già capito, vorrebbero aiutarci ma possono farlo fino a un certo punto.



E allora sono andato là in fondo, a salutare alcuni amici, a poche ore dall'inizio della nuova stagione di quella squadra che per noi non è mai stata una squadra, ma una bussola senza ago per attraversare in modo decoroso, emozionante, a volte perfino divertente questa incomprensibile avventura dell'esistenza. E a ridosso del grande arco ho visto ancora una volta la foto in bianco e nero di Mario Tortul calciatore, poderoso e orgoglioso sullo sfondo dei distinti stracolmi nei due piani. Aveva voluto quella foto per essere ricordato, la famiglia ha aggiunto una sua immagine a colori da uomo attempato, per salutarlo bisogna camminare sopra la sua pietra, chinarsi a rendergli omaggio, aveva allenato anche il mio Sestri, non sono molti ad aver servito l'una e l'altra bandiera che ho sventolato. È ancora tra i migliori realizzatori di sempre, nella nostra storia. Non l'ho mai visto giocare, come tutti quelli prima di Battara Sabadini Sabatini, la mia conoscenza comincia nell'aprile del 1972: ma ho imparato a volergli bene, come agli Etruschi del “Giardino” di Bassani.



E poi sono andato oltre l'arco, a non trovare ancora una volta Edoardo e Dario, due delle persone che mi avevano fatto capire quand'ero ancora ragazzo come la nostra squadra di calcio potesse essere occasione di letteratura: sono lì, da qualche parte, ma in quell'affollamento o sai esattamente dove trovarli, con il numero, oppure devi soltanto mandare loro un pensiero. Dove stia l'autrice del “Porto di Toledo” e del “Cardillo addolorato” lo so, anche lei in una di quelle caotiche arnie dai sembianti di casellario postale: mi piacerebbe sapesse che ho scritto “Quattro colori nel cielo” anche come un omaggio a lei, alla sua scrittura antica e magica e febbrile e da me ineguagliabile. Non c'entrava con la mia visita, ma saperla vicina a Edoardo e Dario mi rincuora.



Allora mi sono diretto verso l'uscita, ma sulla destra ho notato una combinazione di colori nota: c'era nella foto un signore dall'aria gioviale, con un nome allegramente meridionale, insomma un gabibbo come da sempre chiamano noi quelli che dicono di essere i veri genovesi. Sulla pietra c'erano una macchinina, un casco da vigile, il pupazzetto di un cane bassotto e la statuina di un altro cagnolino. E poi appunto il simboletto del marinaio con la pipa. Aveva anche dei fiori finti, di quelli che durano, con i nastrini blucerchiati. Non era vecchio quando se ne era andato e nemmeno era giovanissimo adesso, aveva già sette anni, che peccato se ne fosse andato nella vita vera proprio nel 2011, quelli giovani e giovanissimi erano oltre il porticato a ponente. Ho provato una certa tenerezza per quell'uomo dal sorriso aperto e ingenuo, che quando fissava l'obiettivo per la patente o la carta d'identità in chissà quale cabina automatica certo non immaginava che la foto sarebbe servita per quell'uso. Ho salutato anche lui, chissà quante cose aveva visto e sofferto e quante volte era uscito contento o arrabbiato dallo stadio poco lontano.




Stavo andandomene via, di lì a poco avrebbero chiuso i cancelli, affrettavo il passo cercando il gatto di Passo Sant'Ugo che da qualche parte mi stava sicuramente aspettando. Ma dalla mia destra ho sentito un «Ehi!» inconfondibile, solo una persona sapeva essere brusca e affettuosa al tempo stesso. Era Ernesto, era stato il mio primo direttore, con Edoardo e Dario condivide la responsabilità di avermi fomentato il desiderio di fare il giornalista.



La foto lo raccontava in un clic: i Ray-Ban a goccia affumicati, il sorriso tagliente, lo sguardo acuto e buono. Avrei voluto dirgli tante cose, come agli altri tre ho detto soltanto: come sempre, grazie. Non a voce alta ché tanto non serviva. Ci vediamo domani allo stadio, eh. E poi mi sono avviato all'uscita, il gatto non era lì ad aspettarmi, chissà quando si farà rivedere, sono i gatti che lo decidono.


1 commento:

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