Da
quando ti avevo fatto diventare un mio personaggio, a Passo Sant'Ugo
non ti ho incontrato più. Perciò mi sono stupito, quando ieri
pomeriggio, uscito dal portone di casa, ti ho visto in attesa,
all'inizio del vicolo dove stanno Biba e Pascià. Non mi hai detto
niente, non avresti potuto, ti sei voltato e messo in cammino, ho
capito di doverti seguire. Come nel romanzo.
E
così ti ho seguito, in cima a vico Falamonica hai attraversato la
strada con la sicurezza di quelli come te e nessuno si sorprendeva di
vederti in centro, a farmi strada, nel caos del sabato estivo a
piazza De Ferrari: allora ho capito che ti vedevo soltanto io, che in
realtà non c'eri, oppure c'eri solo per me. Forse qualcuno di quelli
che aveva letto il romanzo era arrivato a capire che non eri un
gatto, o meglio lo eri, ma nel gatto c'era come il ricordo dell'amico
che eri stato, la speranza di poterti parlare ancora, il dispiacere
di non avere vissuto insieme quel Natale alla fine di maggio.
Pensavo
volessi portarmi allo stadio, visto che all'indomani la mia, la
nostra ragazza avrebbe festeggiato il compleanno. Ma all'altezza
della scuola tecnica dove una volta c'era la Bocciardo ho visto che
hai tirato dritto, nel caldo opprimente facevo fatica a tenere il tuo
passo. Poi, davanti al grande ingresso ottocentesco, mi hai guardato
e a tuo modo salutato, per sparire un'altra volta. Sparire e
riapparire è una cosa da gatti. E ha sempre un significato.
E
così sono entrato, anche se meno di mezz'ora dopo avrebbero chiuso
il cancello. Nella grande città del silenzio non ho nessuno dei miei
vecchi, sono tutti a Levante tra Arzeno e San Bertumé, qui ho solo
legami che mi ha dato la vita, a volte più profondi e duraturi di
quelli imposti dal sangue. E allora ho sperato che tu mi seguissi, ma
in fondo al grande viale dopo la statua c'era un altro come te,
stavolta un soriano, ma se n'è andato subito, tanto la strada la
sapevo, forse eri di nuovo tu che volevi sincerarti che non me ne
fossi andato. Ma lo sai che io è da quando sono bambino che cerco di
parlare con quelli con cui non si può parlare, per far loro domande,
per avere risposte, anche solo un piccolo conforto, un senhal, un
silenzio che dica qualcosa. È un sentimento che affiora nelle cose
che scrivo, un moto dell'animo che rimanda alla cultura yiddish, dove
i vivi e i morti si intrattengono insieme e quasi sempre i morti sono
più vivi dei vivi, perché hanno già vissuto, hanno già capito,
vorrebbero aiutarci ma possono farlo fino a un certo punto.
E
allora sono andato là in fondo, a salutare alcuni amici, a poche ore
dall'inizio della nuova stagione di quella squadra che per noi non è
mai stata una squadra, ma una bussola senza ago per attraversare in
modo decoroso, emozionante, a volte perfino divertente questa
incomprensibile avventura dell'esistenza. E a ridosso del grande arco
ho visto ancora una volta la foto in bianco e nero di Mario Tortul
calciatore, poderoso e orgoglioso sullo sfondo dei distinti stracolmi
nei due piani. Aveva voluto quella foto per essere ricordato, la
famiglia ha aggiunto una sua immagine a colori da uomo attempato, per
salutarlo bisogna camminare sopra la sua pietra, chinarsi a rendergli
omaggio, aveva allenato anche il mio Sestri, non sono molti ad aver
servito l'una e l'altra bandiera che ho sventolato. È ancora tra i
migliori realizzatori di sempre, nella nostra storia. Non l'ho mai
visto giocare, come tutti quelli prima di Battara Sabadini Sabatini,
la mia conoscenza comincia nell'aprile del 1972: ma ho imparato a
volergli bene, come agli Etruschi del “Giardino” di Bassani.
E
poi sono andato oltre l'arco, a non trovare ancora una volta Edoardo
e Dario, due delle persone che mi avevano fatto capire quand'ero
ancora ragazzo come la nostra squadra di calcio potesse essere
occasione di letteratura: sono lì, da qualche parte, ma in
quell'affollamento o sai esattamente dove trovarli, con il numero,
oppure devi soltanto mandare loro un pensiero. Dove stia l'autrice
del “Porto di Toledo” e del “Cardillo addolorato” lo so,
anche lei in una di quelle caotiche arnie dai sembianti di casellario
postale: mi piacerebbe sapesse che ho scritto “Quattro colori nel
cielo” anche come un omaggio a lei, alla sua scrittura antica e
magica e febbrile e da me ineguagliabile. Non c'entrava con la mia
visita, ma saperla vicina a Edoardo e Dario mi rincuora.
Allora
mi sono diretto verso l'uscita, ma sulla destra ho notato una
combinazione di colori nota: c'era nella foto un signore dall'aria
gioviale, con un nome allegramente meridionale, insomma un gabibbo
come da sempre chiamano noi quelli che dicono di essere i veri
genovesi. Sulla pietra c'erano una macchinina, un casco da vigile, il
pupazzetto di un cane bassotto e la statuina di un altro cagnolino. E
poi appunto il simboletto del marinaio con la pipa. Aveva anche dei
fiori finti, di quelli che durano, con i nastrini blucerchiati. Non
era vecchio quando se ne era andato e nemmeno era giovanissimo
adesso, aveva già sette anni, che peccato se ne fosse andato nella
vita vera proprio nel 2011, quelli giovani e giovanissimi erano oltre
il porticato a ponente. Ho provato una certa tenerezza per quell'uomo
dal sorriso aperto e ingenuo, che quando fissava l'obiettivo per la
patente o la carta d'identità in chissà quale cabina automatica
certo non immaginava che la foto sarebbe servita per quell'uso. Ho
salutato anche lui, chissà quante cose aveva visto e sofferto e
quante volte era uscito contento o arrabbiato dallo stadio poco
lontano.
Stavo
andandomene via, di lì a poco avrebbero chiuso i cancelli,
affrettavo il passo cercando il gatto di Passo Sant'Ugo che da
qualche parte mi stava sicuramente aspettando. Ma dalla mia destra ho
sentito un «Ehi!» inconfondibile, solo una persona sapeva essere
brusca e affettuosa al tempo stesso. Era Ernesto, era stato il mio
primo direttore, con Edoardo e Dario condivide la responsabilità di
avermi fomentato il desiderio di fare il giornalista.
La foto lo
raccontava in un clic: i Ray-Ban a goccia affumicati, il sorriso
tagliente, lo sguardo acuto e buono. Avrei voluto dirgli tante cose,
come agli altri tre ho detto soltanto: come sempre, grazie. Non a
voce alta ché tanto non serviva. Ci vediamo domani allo stadio, eh.
E poi mi sono avviato all'uscita, il gatto non era lì ad aspettarmi,
chissà quando si farà rivedere, sono i gatti che lo decidono.
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