mercoledì 31 ottobre 2018

Quel che resta



«Hai visto che gol Saponara? Peccato non sia servito a niente. E anche quello di Quagliarella, alla fine di un'azione con una trentina di tocchi di prima. Inutile anche quello». Questo ti ho detto oggi, davanti a te, con l'ombrello in una mano e il cappello nell'altra, anche se pioveva. Mi ero tolto il cappello all'ingresso anche se attorno a me lo tenevano tutti, ma tu mi avevi insegnato diversamente. Il rispetto, l'eleganza, la decenza, il rigore verso se stessi come precondizione per esigerlo dagli altri. Non ho imparato abbastanza, sono stato uno studente anomalo e incostante e tu eri la materia più bella e difficile.
Questo ti ho detto, dei gol del Doria a Milano, o meglio ho pensato di dirti, immaginandomi anche la risposta, devo allenarmi a farlo. È la seconda volta che vengo a trovarti, non più a casa nostra che adesso è diventata davvero troppo grande, più grande anche di quando ero bambino e la misuravo alla mia dimensione. È ancora strano venirti a trovare dove da bambino mi avevi portato tante volte, alla fine della festa del Soccorso e poi appunto in questi giorni, quindi a scadenze ravvicinate. Tanto che conosco a memoria il percorso fatto insieme con te, a farmi vedere i volti di coloro che erano vissuti prima di noi.
C'erano già tanti nostri vecchi quando ero bambino, i tuoi nonni e zii di parte materna subito entrando sulla destra, poi i tuoi nonni paterni lassù, gli sguardi lontani lui come di bimbo inconsapevole, lei come di donna austera e impassibile. Poi cominciava la sequenza dei tuoi zii, il primo sulla destra ammazzato in quel modo orribile da gente orribile, per molti anni lui e sua moglie sono rimasti soli, ora nei mesi scorsi con una specie di oscuro girotondo d'amore lo hanno raggiunto uno dietro l'altro tutti e tre i figli, anche se l'ultimogenito sta con la sua bimba al piano superiore, non lontano dai suoi e tuoi zii, quello dell'incidente stradale e quello che fumava troppo. Quello del bombardamento aereo sta poco più in là, vicino al più piccolo, “u figgeu” come diceva tuo padre. Quante volte abbiamo fatto insieme questo percorso sul ghiaietto, e tu mi indicavi i volti di alcune persone e me ne raccontavi la vita con le tue parole, ora tu sei diventato l'ultima tappa del percorso e così stavolta sono venuto a parlarti del gol di Saponara perché almeno avremmo parlato d'altro. Abbiamo passato gli ultimi anni nostri insieme come i primi, parlando di calcio per parlare d'altro, rispetto alle fatiche della tua giovinezza e a quelle della tua vecchiaia. Fatiche che hanno finito per piegarti, per sottrarti al destino di vivere almeno quanto tuo padre.
Ha piovuto tutto il tempo, dalla stazione alla casa diventata troppo grande, al cammino incongruo tracciato attraverso quella che una volta era la Tubifera, al posto del tuo capannone c'è una piscina e un prato e una collina artificiale, e poi finalmente sull'Aurelia com'era. Sulla piazza della chiesa ci sono la drogheria tale e quale ai tempi in cui c'eravamo ancora quasi tutti, la casetta antica accanto, e poi da lì la strada è corta, due settimane fa non ho avuto neanche il tempo di capire che cosa fosse quella camminata di accompagnamento che già eravamo arrivati. Ha sempre piovuto, una pioggia leggera da cappello appunto, l'ombrello come caduceo, l'idea di prendere un caffè al bar della piazza che si chiama come quello di Chiavari dove andavamo a giocare la schedina, ma poi ho rinunciato al caffé, se no avrei dovuto parlare con qualcuno che non eri tu ma che di te mi avrebbe chiesto. E mentre ti parlavo di due gol inutili mi sono vergognato per non essere riuscito ancora a sistemare per bene la tua nuova casa, mancano una porta come si deve e la foto che sai, ma in questi giorni mi sono cascate addosso troppe cose e ne sei consapevole, ti sei sempre preoccupato che io non avessi troppe incombenze a cagione tua e vostra a forza di esonerarmene e occupartene come potevi mi trovo adesso con un discreto arretrato, ma tocca a me e ci mancherebbe altro. È bello parlarti però e intuire le risposte, perché insomma ci siamo praticati e conosciuti abbastanza a lungo, quindi quando ti dicevo una cosa era come giocare a tennis, anzi a tennistavolo.

Già, il tennistavolo, lì ho capito che c'era qualcosa di ineludibile tra noi. Può sembrare stupido che si comprenda molto di quel che lega padri e figli per via del tennistavolo, ma a me capitò un pomeriggio ai tempi del ginnasio, un compagno di scuola aveva la chiave della sede della lega navale di Chiavari, e c'era il tavolo da gioco, io non avevo mai tenuto in pugno una racchetta, provai tanto per provare, be' quel giorno stesso ero già in grado di battere gli altri che giocavano da tempo, quando alla sera te lo raccontai orgoglioso, mi dicesti che tu da ragazzo a San Bartolomeo eri il più bravo di tutti a tennistavolo. Qualcosa da te ho preso, non abbastanza forse ho sempre sospettato, stupidamente pensavo che la mamma avrebbe fatto meglio a lasciarti tutto lo spazio possibile, senza prendersi quella ovvia metà che a tutti si trasmette. Ma ho cercato lo stesso di impararti, spiandoti quando non eri impegnato a educarmi. Così sono venuto qui, in questo strano giorno che vedrà dal tardo pomeriggio nel carruggio di Lavagna, nel carruggio di Chiavari, a De Ferrari e in San Lorenzo frotte di bambini vestiti da diavoli, da scheletri, da fantasmi inscenare una infernale sardana giocosa che non ha niente a che vedere con quel che siamo stati, nella prospettiva di una colonizzazione dell'inconscio. E mentre rientravo nella mia casa che adesso è più vuota anche lei, perché il telefono accanto alla tastiera non squilla più nel primo pomeriggio e alle otto di sera, ho pensato di aver fatto bene a non portarti nemmeno un fiore. Perché i fiori sono morti, una volta che li recidi muoiono, non attingono più acqua alle radici, sono assenze offerte alle assenze e non è questo che voglio, non è questo che avresti voluto. La prossima volta speriamo di parlare di qualche altro bel gol magari per una vittoria, e magari di tutto quel che non ci siamo detti in tutti questi anni che ci siamo parlati anche tacendo, anche solo con uno sguardo. È tutto quello che posso fare, adesso: cercare in me quel che resta di te, in te di me.

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