mercoledì 22 agosto 2018

Il tempo che non è passato



Forse mi sono preso tanto a cuore questa storia perché ci ho intravisto qualcosa di quella che avevo vissuto tre anni fa. Anche io sono stato e sono un superstite, anche io sono stato e sono uno sfollato, anche io mi sono sentito dire che dovevo lasciare casa mia per non tornarci mai più.
Forse mi sono preso tanto a cuore questa storia perché rimane nel vuoto il bellissimo giornale che avremmo fatto, vi prego di fidarvi sulla parola se per voi la mia parola ha un senso, ma vi assicuro che sarebbe stato così. Ogni tanto, ogni volta che accade qualcosa di grosso, mi capita di pensare al bellissimo giornale che avremmo fatto e mai come stavolta mi ci ritrovo continuamente a rimuginare. È stato davvero un peccato, anche per noi che ci siamo trovati da un giorno all'altro a pensare al bellissimo giornale che avremmo fatto, senza più poterlo fare, trovandoci a leggere i giornali fatti dagli altri, ridotti al rango di quei lettori da bar che mi piaceva deridere, e adesso invece le ragazze dietro al banco agli Specchi o al Douce di via Venti, ogni volta che mi vedono lo sanno che il caffè è sì un piacere, ma soprattutto un pretesto. E i raccoglitori si sono riempiti di niente, di copie che non sono mai state stampate e nemmeno pensate, si sono riempiti della nostra nostalgia di esuli.
Forse mi sono preso tanto a cuore questa storia perché mi immagino quella mattina della settimana scorsa il giro di telefonate, la corsa in redazione, guardarsi in faccia, tu vai di qui ché io vado di là, sentire un ingegnere, cercare Piano, cercare questo e quello, andare sul posto col fotografo, uno in comune, uno alla protezione civile, insomma tutta la macchina che scattava, poi magari io sarei andato a Bogliasco per l'allenamento e quasi a sera avrei avuto il colonnone da riempire accanto al paginone fotografico, o forse no, sarei andato sul Polcevera a guardare il nulla e a farmi dire qualcosa, appunto, dal nulla.
E invece ci sono andato lo stesso, a misurarmi con il vuoto e il dolore e lo smarrimento, perfino vergognandomi come adesso dell'analogia tracciata, perché io ho perso soltanto una scrivania e un elaboratore e la gratificazione di rileggersi la mattina dopo agli Specchi prima di tornare al giornale, pensando di aver fatto buono o cattivo non so, ma di avercela messa tutta con dignità e decoro. A ripensarci tutto sommato anche io ho perso tutto, però. Forse mi sono preso tanto a cuore questa storia perché ai tempi del giornale non me ne era capitata mai una così da raccontare, lasciamo perdere le partite di calcio e i suoi paladini e pupi e cavalieri che pure ho cercato di ridisegnare come se fossero qualcosa di diverso dal calcio, e per spirito di alpino, quell'alpino che sono stato per tre giorni a diciassette anni, mi sono trovato a seguire e descrivere in un linguaggio che avevo sempre sfuggito. In redazione mi prendevano in giro perché ero allergico alle telecamere, quando per qualche evento eccezionale arrivava una troupe di ripresa io me ne andavo con la scusa di un caffé, oppure al bagno, non mi andava che la mia faccia venisse abbinata alla mia firma, volevo essere soltanto parole scritte su un foglio di carta, ma la vita è bravissima a capire cos'è che non vorresti fare mai e allora te lo mette davanti senza alternative. Eppure mi sono conservato questa ansa notturna, questa intercapedine di sopravvivenza dei riti al dio cattivo della scrittura, un dio che ti divora senza darti niente in cambio. I giorni stanno passando, le anime stanno lasciando se stesse, tra poco butteranno giù quel che resta del ponte, oggi mentre ero in diretta ascoltavo un telespettatore che si doleva di come non era ancora potuto tornare a casa sua, a prendersi i mobili e gli oggetti della vita, si preoccupava poi dell'indennizzo che gli avrebbero riconosciuto, che non sarebbe stato comunque confacente a ripagarlo della sofferenza patita. Io aspettavo l'arrivo del presidente e del sindaco, ascoltavo quel signore anziano dignitoso e pensavo a quando avevo lasciato la mia scrivania, non ero riuscito a portare via dai cassetti che stipavo delle cose che avanzavo di tenere sul ripiano, vuoto di tutto per vezzo e per comodità, non ero riuscito a portare via dai cassetti che le cose proprio indispensabili, alcune lettere e fotografie, un doppio disco di Corrado Rollero che sarebbe stato uno dei più grandi pianisti del nostro tempo se non fosse stato oppresso dall'idea della perfezione, qualche libro, poche cose. Ma il peggio sarebbe arrivato quando mi fecero sapere che il liquidatore esigeva la restituzione dei portatili, il mio era un Mac bianco e per una decina d'anni ci ero andato dappertutto, dalla Russia alla Svezia alla Libia al Portogallo, ormai non valeva che meno di cento euro, avrebbero potuto lasciarmelo per ricordo, c'erano dentro migliaia di migliaia di lettere e parole uscite dal convulso saltabeccare dei miei polpastrelli, indice e medio al massimo perché ero un autodidatta sia pure velocissimo. Ti avrei portato, ecco che mi viene da dare del tu a un vecchio Apple, ti avrei portato anche sul ponte a ridosso dell'Ikea, seduto per terra non per fare il verso a Montanelli a Budapest ma perché in certi frangenti è la posizione più comoda, e avrei raccontato tutto quel che non si poteva più vedere. Forse mi sono preso a cuore questa storia perché era un modo di raccontare, molto da lontano e con pudore e al tempo stesso con un poco di contraddittoria sfacciataggine, quel crollo e quella tristezza e quel nulla che non interessarono a nessuno o quasi, che sopravvivono ormai soltanto nella memoria di chi c'era. Il nostro ponte non c'è stato neppure il dubbio se ricostruirlo o no, l'insegna c'è ancora ma dietro non c'è niente, se non le nostre vite e le nostre esperienze, non le chiamo carriere, rimaste dietro quella griglia che non si apre più. Forse per questo mi sono preso tanto a cuore questa storia, perché un poco l'avevo già vissuta, e anche se ormai interessa soltanto a chi c'era ne sono tornato per raccontarla. Quando ripasserò su quel ponte, che non sarà più quello ma un altro, penserò a tutto il tempo che non è passato.

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