Quanti
siete, penso ogni volta che vengo da voi, una moltitudine che ci fa
sembrare ancora più inutili e residuali, nell'affinità dell'etimo
tra superstiti e superstizione. È un pensiero stupido, dico quello
su quanti siate, perché di fronte al mistero o si rinuncia a pensare
oppure in mente possono venire soltanto idee stupide, per chi non sia
un genio. E io sono tutt'altro che un genio. Non so per la verità
quanti davvero siate, né dove siate adesso, non sono molti secoli
tutto sommato che vi radunate qui, però è in riva a questo torrente
prosciugato dall'estate che devo venire, sperando di cogliere un
segno di riconoscimento, un barbaglio di luce, l'idea remota di una
voce. Una settimana dopo, che sul greto dell'altro torrente che
scandisce il tempo di questa città era successo quel che sapete,
sono tornato a cercare di ascoltarvi, a chiedere ascolto, a dedurre
dalle vostre risposte le domande che vorrei farvi, per quanto già
sappia che non mi risponderete.
Chissà
se questo silenzio e questa pace sono davvero gli assi cartesiani di
una condizione che tutto sommato è quella normale, se rifletto su
quanto siano vasti il prima e il dopo rispetto a quel minimo durante
che chiamiamo vita, chissà se la vita sia davvero quella che
crediamo. Non so dove esattamente andare, aspetto un richiamo, ma
intanto un operaio che conosco mi ferma per parlare del Doria, e poi
mi racconta del ragazzo genoano caduto dal ponte e portato stamattina
alla macchina ignea che sta dopo i due campi centrali, io non lo
conoscevo ma lo conoscevano molti miei amici e tutti a dirne non meno
che benissimo. Funziona così, e allora torniamo a parlare di chi
farà il centromediano, e della cessione di Zapata, e di tutto il
nostro gigantesco parlar d'altro, sul ciglio del silenzio che qui
dilaga.
Anche
voi tutto sommato avete le vostre età, nella vostra condizione si
replicano i ritmi della nostra. Così ci sono i vecchi, i
vecchissimi, quelli di mezza età e poi i giovani, che magari erano
vecchi ma qui sono tra gli ultimi arrivati. Forse i morti da poco non
sono ancora davvero morti, fluttuano in uno stato di malumorato
stupore, quasi certamente di dispetto, si fanno forse le nostre
stesse domande, solo che riguardano direttamente loro. Due turisti mi
chiedono dove sia il cantante, faccio prima ad accompagnarceli, e
allora nella tensostruttura dove i morti giovani aspettano il loro
turno di andare nella macchina ignea, perché anche qui c'è da
aspettare, vedo uno spigolo di legno bianco, credo di capire chi sia,
è un attimo bianco, un rumore bianco, una domanda bianca, il bianco
diventa giapponese ed è un colore che soffoca.
Mi
allontano nel silenzio, mentre una guida accompagna un gruppo di
persone di cui una domanda di dove si trovi Dino Campana, e la guida
risponde che non è qui, ed è una risposta giusta e al tempo stesso
sbagliata, perché Dino Campana certo che sta alla Badia a Settimo,
ma poi chi lo dice che non venga qui perché ci starebbe meglio,
magari ha fatto amicizia con Mainetto, il Pelè bianco che anche lui
era un irregolare e sorride da una foto del campo centrale. Mi
accorgo che l'urbanistica severa e rigorosa di questa città nasconde
invece la capziosità di un labirinto. Non ci sono ostacoli visibili,
punti di fuga apparenti, trompe l'oeil che disorientano, però non
trovi mai quel che vorresti trovare, ci sono statue che mi sfuggono,
non trovo mai la copertina di “Closer”, colpa mia che ci vengo e
non vorrei venirci, ma devo farlo per rispetto, così mi premunisco
di distrazione autodifensiva. Mi guardo attorno, non c'è nessuno,
sotto il porticato a ridosso dell'ingresso principale che è chiuso
quasi sempre ci sono delle masse incellofanate di detriti speciali,
poi pile di altri scatoloni tipo mobilificio svedese, l'aspetto
burocratico e meccanico e quasi agricolo di questa città sconfina
spesso nel grottesco, nel senso umoristico che afferisce agli
inglesi, quando invece è agli ebrei che si dovrebbe guardare.
Ogni
tanto piove, anche se nel cielo non sembrano esserci nuvole, negli
ultimi giorni accade spesso, pioggia col sole era successa anche quel
giorno di fine aprile del 1986 quando poi avremmo saputo che in
Ucraina era esplosa una centrale atomica, stavamo pedalando verso il
Bocco di Leivi io e alcuni amici di cui uno vorrei trovare qui, anche
se non è né qui né altrove.
Mi
affaccio sul settore israelitico, ora sorvegliato da un ingresso
tinto in giallo, quella desolazione che sembra abbandono è invece
ossequio per il lavoro del tempo. Perché è il tempo che qui
governa, il tempo che sembra andare in una sola direzione ma sembra
appunto a noi, perché è proprio qui che si può intuire come il
tempo giri invece in tondo, e il passato e il presente si rincorrono,
stringendo d'assedio il futuro che non si vede, non esiste.
Osservo
queste statue, angeli e commendatori e bambini e civette e giovani
donne e ammiragli e santi e frati e martelli e compassi e tutto quel
che contribuisca alla fabbrica della memoria, all'immenso opificio
dell'oblio. Hanno sguardi che dicono qualcosa ma non riesco a capire
che cosa. Transenne, strisce bianche e rosse, avvisi di pericolo,
frecce a indicare una direzione: tutti inganni dell'artefice di
questo impercorribile labirinto.
Salgo
al tempio centrale, sulla grande scalinata ingrigita, quando da una
piccola galleria laterale vedo sporgersi un gatto. È lui, è lui che
è venuto a parlarmi, ma quando penso «È lui» dovrei chiedermi chi
intenda, quando dico «lui». Certo che lo so, oppure credo o meglio
mi illudo di saperlo. Mi fissa interrogativo, quindi emette un
flebile miagolio, si avvia nella stretta galleria, svicola dietro
l'angolo, siamo sotto il tempio, ogni tanto si ferma, mi aspetta,
quindi riparte, ma è troppo veloce per me, fugge verso la scala in
discesa laggiù in fondo, non so se lo rivedrò, so che non lo
rivedrò, chissà che cosa aveva da dirmi, lo so che cosa avesse da
dirmi, infatti ho capito. Esco dalla galleria, subito fuori ci sono
due scodelline coi crocchini, prese d'assalto da un andirivieni
forsennato di formiche in escavazione. Mi sembra di sentire un remoto
miagolio, ma forse sono io che voglio udirlo, chiudo gli occhi e li
riapro ma il gatto non compare. Chissà se esisteva davvero, certo
non era davvero un gatto.
Ridiscendo
la scalinata, mi avvio verso l'uscita, ritrovo il mio amico, parliamo
ancora un po' del Doria. Tutto sommato domenica ricomincia il
campionato e neppure qui nulla finisce.
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