giovedì 23 agosto 2018

La città del silenzio



Quanti siete, penso ogni volta che vengo da voi, una moltitudine che ci fa sembrare ancora più inutili e residuali, nell'affinità dell'etimo tra superstiti e superstizione. È un pensiero stupido, dico quello su quanti siate, perché di fronte al mistero o si rinuncia a pensare oppure in mente possono venire soltanto idee stupide, per chi non sia un genio. E io sono tutt'altro che un genio. Non so per la verità quanti davvero siate, né dove siate adesso, non sono molti secoli tutto sommato che vi radunate qui, però è in riva a questo torrente prosciugato dall'estate che devo venire, sperando di cogliere un segno di riconoscimento, un barbaglio di luce, l'idea remota di una voce. Una settimana dopo, che sul greto dell'altro torrente che scandisce il tempo di questa città era successo quel che sapete, sono tornato a cercare di ascoltarvi, a chiedere ascolto, a dedurre dalle vostre risposte le domande che vorrei farvi, per quanto già sappia che non mi risponderete.
Chissà se questo silenzio e questa pace sono davvero gli assi cartesiani di una condizione che tutto sommato è quella normale, se rifletto su quanto siano vasti il prima e il dopo rispetto a quel minimo durante che chiamiamo vita, chissà se la vita sia davvero quella che crediamo. Non so dove esattamente andare, aspetto un richiamo, ma intanto un operaio che conosco mi ferma per parlare del Doria, e poi mi racconta del ragazzo genoano caduto dal ponte e portato stamattina alla macchina ignea che sta dopo i due campi centrali, io non lo conoscevo ma lo conoscevano molti miei amici e tutti a dirne non meno che benissimo. Funziona così, e allora torniamo a parlare di chi farà il centromediano, e della cessione di Zapata, e di tutto il nostro gigantesco parlar d'altro, sul ciglio del silenzio che qui dilaga.
Anche voi tutto sommato avete le vostre età, nella vostra condizione si replicano i ritmi della nostra. Così ci sono i vecchi, i vecchissimi, quelli di mezza età e poi i giovani, che magari erano vecchi ma qui sono tra gli ultimi arrivati. Forse i morti da poco non sono ancora davvero morti, fluttuano in uno stato di malumorato stupore, quasi certamente di dispetto, si fanno forse le nostre stesse domande, solo che riguardano direttamente loro. Due turisti mi chiedono dove sia il cantante, faccio prima ad accompagnarceli, e allora nella tensostruttura dove i morti giovani aspettano il loro turno di andare nella macchina ignea, perché anche qui c'è da aspettare, vedo uno spigolo di legno bianco, credo di capire chi sia, è un attimo bianco, un rumore bianco, una domanda bianca, il bianco diventa giapponese ed è un colore che soffoca.
Mi allontano nel silenzio, mentre una guida accompagna un gruppo di persone di cui una domanda di dove si trovi Dino Campana, e la guida risponde che non è qui, ed è una risposta giusta e al tempo stesso sbagliata, perché Dino Campana certo che sta alla Badia a Settimo, ma poi chi lo dice che non venga qui perché ci starebbe meglio, magari ha fatto amicizia con Mainetto, il Pelè bianco che anche lui era un irregolare e sorride da una foto del campo centrale. Mi accorgo che l'urbanistica severa e rigorosa di questa città nasconde invece la capziosità di un labirinto. Non ci sono ostacoli visibili, punti di fuga apparenti, trompe l'oeil che disorientano, però non trovi mai quel che vorresti trovare, ci sono statue che mi sfuggono, non trovo mai la copertina di “Closer”, colpa mia che ci vengo e non vorrei venirci, ma devo farlo per rispetto, così mi premunisco di distrazione autodifensiva. Mi guardo attorno, non c'è nessuno, sotto il porticato a ridosso dell'ingresso principale che è chiuso quasi sempre ci sono delle masse incellofanate di detriti speciali, poi pile di altri scatoloni tipo mobilificio svedese, l'aspetto burocratico e meccanico e quasi agricolo di questa città sconfina spesso nel grottesco, nel senso umoristico che afferisce agli inglesi, quando invece è agli ebrei che si dovrebbe guardare.
Ogni tanto piove, anche se nel cielo non sembrano esserci nuvole, negli ultimi giorni accade spesso, pioggia col sole era successa anche quel giorno di fine aprile del 1986 quando poi avremmo saputo che in Ucraina era esplosa una centrale atomica, stavamo pedalando verso il Bocco di Leivi io e alcuni amici di cui uno vorrei trovare qui, anche se non è né qui né altrove.
Mi affaccio sul settore israelitico, ora sorvegliato da un ingresso tinto in giallo, quella desolazione che sembra abbandono è invece ossequio per il lavoro del tempo. Perché è il tempo che qui governa, il tempo che sembra andare in una sola direzione ma sembra appunto a noi, perché è proprio qui che si può intuire come il tempo giri invece in tondo, e il passato e il presente si rincorrono, stringendo d'assedio il futuro che non si vede, non esiste.
Osservo queste statue, angeli e commendatori e bambini e civette e giovani donne e ammiragli e santi e frati e martelli e compassi e tutto quel che contribuisca alla fabbrica della memoria, all'immenso opificio dell'oblio. Hanno sguardi che dicono qualcosa ma non riesco a capire che cosa. Transenne, strisce bianche e rosse, avvisi di pericolo, frecce a indicare una direzione: tutti inganni dell'artefice di questo impercorribile labirinto.
Salgo al tempio centrale, sulla grande scalinata ingrigita, quando da una piccola galleria laterale vedo sporgersi un gatto. È lui, è lui che è venuto a parlarmi, ma quando penso «È lui» dovrei chiedermi chi intenda, quando dico «lui». Certo che lo so, oppure credo o meglio mi illudo di saperlo. Mi fissa interrogativo, quindi emette un flebile miagolio, si avvia nella stretta galleria, svicola dietro l'angolo, siamo sotto il tempio, ogni tanto si ferma, mi aspetta, quindi riparte, ma è troppo veloce per me, fugge verso la scala in discesa laggiù in fondo, non so se lo rivedrò, so che non lo rivedrò, chissà che cosa aveva da dirmi, lo so che cosa avesse da dirmi, infatti ho capito. Esco dalla galleria, subito fuori ci sono due scodelline coi crocchini, prese d'assalto da un andirivieni forsennato di formiche in escavazione. Mi sembra di sentire un remoto miagolio, ma forse sono io che voglio udirlo, chiudo gli occhi e li riapro ma il gatto non compare. Chissà se esisteva davvero, certo non era davvero un gatto.

Ridiscendo la scalinata, mi avvio verso l'uscita, ritrovo il mio amico, parliamo ancora un po' del Doria. Tutto sommato domenica ricomincia il campionato e neppure qui nulla finisce.

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