lunedì 27 agosto 2018

La coscienza di Zeman



Tra le molte cose che devo al carissimo amico Paolo Bertuccio, uno dei migliori se non il migliore, massì il miglior giovane collega che abbia fatto in tempo a incrociare prima del naufragio del sottomarino giallo, c'è una battuta a suo modo geniale: «Bergoglio è come Zeman, piace soprattutto ai tifosi delle squadre avversarie».
Una battuta che nasconde un fondo di verità amara. Nessun Papa come Bergoglio, infatti, è stato capace di raccogliere consensi in quel mondo intellettuale e politico, specialmente italiano, che fino alla sua elezione aveva sempre combattuto aspramente non tanto le figure e le opere concrete dei predecessori, quanto la stessa istituzione della Chiesa e in ultimo l'idea medesima di cattolicesimo. Gli stessi direttori, scrittori, registi, editorialisti, cantanti, attori e militanti di partito - uniti nel conformismo del pensiero unico politicamente corretto laico laicista e anticlericale – che per decenni avevano inscenato una campagna di sradicamento del cristianesimo, adesso esultano plaudenti a quasi tutte le prese di posizione pubbliche del pontefice argentino, passando sotto silenzio quelle poche affermazioni – solitamente in tema di bioetica e morale familiare – dissonanti dal loro sentire.
Ora succede che un altissimo prelato di Curia, già nunzio apostolico negli USA, muove al Papa pesantissime accuse di aver insabbiato e coperto squallide vicende di abusi sessuali perpetrati da uomini di Chiesa. In altri tempi, sarebbe stato la madre di tutti i piatti ricchi, in cui si sarebbero ficcati i micromeghisti e i radicali, i ventisettembrini e gli antiottopermille, i frammassoni e gli scalfariani, i pamphlettisti dello scandalismo, i compilatori di dossier anonimi, gli autori e produttori e distributori di opere di larghissima popolarità e diffusione come “Il caso Spotlight” e “Magdalene”, destinati a vendemmiare Oscar e Leoni d'Oro.
Può darsi che prima o poi lo facciano. Per ora, invece, stavolta, niente. Neppure di fronte alla reazione cauta e difensiva - una volta si sarebbe detta andreottiana - del Papa che di fatto oppone un “No comment” ai gravissimi rilievi, i vecchi e collaudati incursori di un anticristianesimo travestito da anticlericalismo (allo stesso modo in cui l'antisemitismo spesso si camuffa da critica alla politica dello Stato di Israele), sempre pronti ad azzannare “pastori tedeschi” e consimili, si lanciano almeno nell'atto dovuto di una richiesta di verità. Anzi fanno di peggio: su quasi tutti i giornali italiani di stamattina viene preliminarmente screditata la figura dell'accusatore, secondo una tecnica che richiama metodi poco commendevoli.
Il messaggio che passa, neppure troppo subliminalmente, è il seguente: questo monsignore parla così per motivazioni personali miserabili, per vendicarsi di una promozione attesa e invece sfumata, per antipatia personale verso il Papa e la sua cerchia, perché è un tradizionalista e non gli va giù come Bergoglio stia trasformando la Chiesa.
Nessun accenno a quella che dovrebbe essere la cosa più importante: se le cose che l'accusatore del Papa dice siano vere o false.
Questa dovrebbe essere la priorità.
Quando un “pentito” di mafia tirava in ballo questo o quel politico, non ci si chiedeva mai se fosse sincero, o se piuttosto non lo facesse per avere qualcosa in cambio dai pm desiderosi di incastrare un pezzo grosso, magari un avversario politico. Quando una signora milanese aveva dato in pasto alla stampa e ai magistrati le foto vacanziere e i retroscena della corte di Berlusconi, nessuno osò insinuare che tanto sdegno civile non fosse completamente genuino, radicandosi invece anche nelle evoluzioni della vita privata della signora in relazione al rapporto con un alto dignitario berlusconiano.
Stavolta si torna al copione della delegittimazione personale preventiva dell'accusatore, per incenerirne la credibilità. Non ci si focalizza sul contenuto delle sue accuse. Spiace per molti motivi tracciare questo paragone, ma sembra tornato in auge lo stesso metodo utilizzato a partire dall'estate di trent'anni fa per demolire non tanto le sue accuse, ma la persona stessa di Leonardo Marino, che aveva innescato con la sua confessione il processo per l'omicidio del commissario Calabresi.

E allora è naturale domandarsi perché la formidabile macchina mediatica dell'anticattolicesimo e dell'anticlericalismo, una macchina che ha validamente contribuito alla quasi completa scristianizzazione dell'Italia, stavolta si sia inceppata, taccia o parli di malavoglia, e se parla lo fa in modo ambiguo, non per chiedere solennemente conto al Pontefice se sia vero che egli abbia coperto abusi odiosi, con il conseguente obbligo di dimissioni, ma per denigrare il suo accusatore tacciandolo di meschinità e carrierismo frustrato. Forse perché, appunto, ha ragione il mio caro amico Paolo.

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