Non
amo i funerali, così un incipit del Montale estremo. Così da povero
montaliano smarrito, stamattina sono andato sì alla Foce, ma
all'altezza della statua del Navigatore mi sono incamminato verso
Levante.
Avevo
con me un libro di Bettiza e tanta melanconia, sarei rimasto a
leggere sul belvedere Firpo fino a quando tutto fosse finito.
Sul
piazzale, vedevo i pullman delle due squadre cittadine. Sapevo che un
evento come quello era a fortissimo rischio di Kitsch, era un
presagio fin troppo facile a inverarsi.
Il
dolore per un lutto inatteso è un sentimento privato, anzi intimo:
mal si concilia con un padiglione fieristico. Il dolore per un lutto
inatteso è un sentimento individuale, familiare al massimo: si muore
soli e non c'è fratellanza lenitiva nella sorte.
La
perniciosa combinazione tra l'ipermediatizzazione della società e
l'esibizionismo, di vertice e di massa, ha trasformato quello che
avrebbe dovuto essere un rito di commiato nella lugubre parodia di un
tappeto rosso da festival del cinema. Tanto che moralmente risalta la
scelta solitudinaria delle famiglie che, pur incastrate da un
annuncio intempestivamente frettoloso, si erano sottratte alla
trappola circense della celebrazione di Stato.
Non
ci siamo fatti mancare niente del peggio. A partire dall'enfasi
collettiva con cui sono state accolte e magnificate le normali
espressioni di cordoglio di uno solo dei ministri di culto presenti,
a sottolineare una volta di più l'inconscia brama indotta di
abbandonarci a tutto quanto non sia radicalmente nostro, a quanto con
noi sia difficilmente compatibile a meno di banali semplificazioni
assolutorie, a quanto possa contribuire a fare di un'identità una
non identità: oscuro riflesso condizionato, maturo frutto di decenni
di pedagogia eterofila e suicidiaria ordita a rivincita dagli
antipatizzanti dell'Occidente.
Ma
il peggio era nei telefoni. All'impronta, non saprei se valutare più
allarmante il comportamento dell'uomo di governo che si presti
all'autoscatto, o quello dei cittadini che glielo abbiano invocato a
titolo di grazia pagana, per giunta nel contesto che più di ogni
altro avrebbe preteso asciuttezza, rigore, compunzione. Ed è ovvio
che un ministro dovrebbe dare l'esempio ai cittadini. Ma se il
ministro si propone ai cittadini come la loro sintesi, lo schema si
conchiude ed è quello dello specchio.
Purtroppo
gli autoscatti sono figli degli applausi in chiesa, usanza che pare
risalga alle esequie napoletane di Totò. Purtroppo gli autoscatti
sono figli degli applausi che di fatto hanno abrogato il minuto di
silenzio negli stadi, divenuto appunto minuto di applausi. Purtroppo
gli autoscatti, ma qui ci vorrebbe un antropologo culturale, sono
figli della rimozione del senso del sacro che – dal mito di
Gilgamesh in poi - è strettamente connesso al tabù della morte.
La
società moderna ha cancellato la morte dalla vita, l'ha resa un
complemento d'arredo con punti di fuga talvolta paradossali:
l'estenuante dibattito sull'autodeterminazione, l'esilio dei morenti
in appositi cronicari appartati, la crioconservazione dei tessuti,
l'abolizione sostanziale delle necropoli tradizionali nella
prospettiva cremazionistica, con gli scomparsi attesi da un destino
di soprammobili o – ultima frontiera – pietre preziose da anello.
Se svanisce il senso del Sacro, la morte è soltanto un trascurabile
accidente aristotelico, sterilizzabile con il silenzio o con la
dissimulazione.
Ma
la morte, cancellata, si vendica ricomparendo nella forma del
Grottesco. Ed è quello che accade appunto dai tempi degli applausi a
Pertini, del contrappunto anodino tra i fischi ai ministri e gli
applausi a Scalfaro nella cattedrale di Palermo: diretti arcavoli
degli autoscatti di stamattina, barbarie di altro segno ma di natura
identica. Che sia incivile e squallido quanto perpetrato stamattina
al Nouvel, in margine all'inarrestabile avanzata dell'“esercito dei
selfie”, non andrebbe neppure sottolineato; non fosse che molta
dell'indignazione riguarda non tanto l'atto in sé, il che
basterebbe, ma la connotazione dei protagonisti. Quante volte, cioè
sempre, i fischi e gli insulti agli esponenti di governo durante le
cerimonie funebri conseguenti a disastri venivano sottolineati senza
tono censorio, quando non con evidente compiacimento. Se la turbativa
alla sacralità del rito è ammessa in un senso, allora difficilmente
può essere esecrata nell'altro. Proprio mentre la macabra
pagliacciata andava in scena, su un grande quotidiano nazionale
compariva un doppio paginone di reportage sullo stesso ministro degli
autoscatti, seguito in un viaggio al Sud: un reportage ancora una
volta segnato da quello sdegno antropologico, non distante da un
torvo razzismo non solo culturale, che impedisce l'interpretazione
del reale a chi si piccherebbe di orientarlo automaticamente in base
alle proprie immutabili convinzioni. Dipingere costui come una brutta
copia in sedicesimo del duce è fin troppo facile, così come
ritrarre i suoi seguaci alla stregua di un rozzo gregge di fanatici
descolarizzati. Dopo di che, si tratterebbe di comprendere perché
questo e altro avvenga. È purtroppo una comprensione non priva di
sgradevolezze, come non ne è privo il genere umano. Ma una parte del
ceto intellettuale e mediatico continua ad avere seri problemi col
reale, respingendolo in blocco qualora non aderisca ai propri schemi
predefiniti.
La
notizia vera è che il secondo consiglio dei ministri genovese è
stato cancellato, per dissapori interni all'esecutivo sulla linea da
tenere riguardo alla società concessionaria della rete autostradale.
Credo che per onorare la memoria degli scomparsi la sola cosa da fare
sia avviare nell'immediato i lavori di progettazione e costruzione di
un ponte sicuro. Il resto è società dello spettacolo. Roba di mezzo
secolo fa, quindi di oggi e di sempre.
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