sabato 18 agosto 2018

L'esercito dei selfie



Non amo i funerali, così un incipit del Montale estremo. Così da povero montaliano smarrito, stamattina sono andato sì alla Foce, ma all'altezza della statua del Navigatore mi sono incamminato verso Levante.
Avevo con me un libro di Bettiza e tanta melanconia, sarei rimasto a leggere sul belvedere Firpo fino a quando tutto fosse finito.
Sul piazzale, vedevo i pullman delle due squadre cittadine. Sapevo che un evento come quello era a fortissimo rischio di Kitsch, era un presagio fin troppo facile a inverarsi.
Il dolore per un lutto inatteso è un sentimento privato, anzi intimo: mal si concilia con un padiglione fieristico. Il dolore per un lutto inatteso è un sentimento individuale, familiare al massimo: si muore soli e non c'è fratellanza lenitiva nella sorte.
La perniciosa combinazione tra l'ipermediatizzazione della società e l'esibizionismo, di vertice e di massa, ha trasformato quello che avrebbe dovuto essere un rito di commiato nella lugubre parodia di un tappeto rosso da festival del cinema. Tanto che moralmente risalta la scelta solitudinaria delle famiglie che, pur incastrate da un annuncio intempestivamente frettoloso, si erano sottratte alla trappola circense della celebrazione di Stato.
Non ci siamo fatti mancare niente del peggio. A partire dall'enfasi collettiva con cui sono state accolte e magnificate le normali espressioni di cordoglio di uno solo dei ministri di culto presenti, a sottolineare una volta di più l'inconscia brama indotta di abbandonarci a tutto quanto non sia radicalmente nostro, a quanto con noi sia difficilmente compatibile a meno di banali semplificazioni assolutorie, a quanto possa contribuire a fare di un'identità una non identità: oscuro riflesso condizionato, maturo frutto di decenni di pedagogia eterofila e suicidiaria ordita a rivincita dagli antipatizzanti dell'Occidente.
Ma il peggio era nei telefoni. All'impronta, non saprei se valutare più allarmante il comportamento dell'uomo di governo che si presti all'autoscatto, o quello dei cittadini che glielo abbiano invocato a titolo di grazia pagana, per giunta nel contesto che più di ogni altro avrebbe preteso asciuttezza, rigore, compunzione. Ed è ovvio che un ministro dovrebbe dare l'esempio ai cittadini. Ma se il ministro si propone ai cittadini come la loro sintesi, lo schema si conchiude ed è quello dello specchio.
Purtroppo gli autoscatti sono figli degli applausi in chiesa, usanza che pare risalga alle esequie napoletane di Totò. Purtroppo gli autoscatti sono figli degli applausi che di fatto hanno abrogato il minuto di silenzio negli stadi, divenuto appunto minuto di applausi. Purtroppo gli autoscatti, ma qui ci vorrebbe un antropologo culturale, sono figli della rimozione del senso del sacro che – dal mito di Gilgamesh in poi - è strettamente connesso al tabù della morte.
La società moderna ha cancellato la morte dalla vita, l'ha resa un complemento d'arredo con punti di fuga talvolta paradossali: l'estenuante dibattito sull'autodeterminazione, l'esilio dei morenti in appositi cronicari appartati, la crioconservazione dei tessuti, l'abolizione sostanziale delle necropoli tradizionali nella prospettiva cremazionistica, con gli scomparsi attesi da un destino di soprammobili o – ultima frontiera – pietre preziose da anello. Se svanisce il senso del Sacro, la morte è soltanto un trascurabile accidente aristotelico, sterilizzabile con il silenzio o con la dissimulazione.
Ma la morte, cancellata, si vendica ricomparendo nella forma del Grottesco. Ed è quello che accade appunto dai tempi degli applausi a Pertini, del contrappunto anodino tra i fischi ai ministri e gli applausi a Scalfaro nella cattedrale di Palermo: diretti arcavoli degli autoscatti di stamattina, barbarie di altro segno ma di natura identica. Che sia incivile e squallido quanto perpetrato stamattina al Nouvel, in margine all'inarrestabile avanzata dell'“esercito dei selfie”, non andrebbe neppure sottolineato; non fosse che molta dell'indignazione riguarda non tanto l'atto in sé, il che basterebbe, ma la connotazione dei protagonisti. Quante volte, cioè sempre, i fischi e gli insulti agli esponenti di governo durante le cerimonie funebri conseguenti a disastri venivano sottolineati senza tono censorio, quando non con evidente compiacimento. Se la turbativa alla sacralità del rito è ammessa in un senso, allora difficilmente può essere esecrata nell'altro. Proprio mentre la macabra pagliacciata andava in scena, su un grande quotidiano nazionale compariva un doppio paginone di reportage sullo stesso ministro degli autoscatti, seguito in un viaggio al Sud: un reportage ancora una volta segnato da quello sdegno antropologico, non distante da un torvo razzismo non solo culturale, che impedisce l'interpretazione del reale a chi si piccherebbe di orientarlo automaticamente in base alle proprie immutabili convinzioni. Dipingere costui come una brutta copia in sedicesimo del duce è fin troppo facile, così come ritrarre i suoi seguaci alla stregua di un rozzo gregge di fanatici descolarizzati. Dopo di che, si tratterebbe di comprendere perché questo e altro avvenga. È purtroppo una comprensione non priva di sgradevolezze, come non ne è privo il genere umano. Ma una parte del ceto intellettuale e mediatico continua ad avere seri problemi col reale, respingendolo in blocco qualora non aderisca ai propri schemi predefiniti.
La notizia vera è che il secondo consiglio dei ministri genovese è stato cancellato, per dissapori interni all'esecutivo sulla linea da tenere riguardo alla società concessionaria della rete autostradale. Credo che per onorare la memoria degli scomparsi la sola cosa da fare sia avviare nell'immediato i lavori di progettazione e costruzione di un ponte sicuro. Il resto è società dello spettacolo. Roba di mezzo secolo fa, quindi di oggi e di sempre.


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