Adesso
dovrei pure farla, questa intervista. Non ci è ancora riuscito
nessuno e quindi figurati se ce la posso fare io, ma ci proverò lo
stesso, visto che nelle cose semplici sono sempre inciampato,
trovandomi meglio con quelle impossibili. Se avessi ancora un
direttore, sarei già stato spedito a farla, ma non ho più un
direttore e allora mi ci mando da solo. Non ho preso appuntamento,
tanto non serve, la persona che devo intervistare non è da nessuna
parte ma sta dappertutto, se vuol farsi trovare ci riesce e se vuole
nascondersi idem. Comunque ho preso il blocchetto e la bic, meglio
scrivere ché coi registratorini non si sa mai, tu parli e ascolti e
poi scopri che non è rimasto niente, una volta il tasto rec, l'altra
la pila, insomma quando ho registrato ho anche sempre scritto.
Sto
andando dove penso di trovarla, a casa sua, per lo meno là dove la
sua presenza è meno rimossa che altrove, o meglio non è
accantonata. Mi sono vestito come piacerebbe a lei, come se fosse un
segno di riconoscimento, come Dennis Hopper nel film di Wenders. Ma
mentre sto andando a un incontro che non ci sarà, all'altezza del
ponte di Sant'Agata sento di dover cambiare percorso, anche se mi fa
male tornare dove sono andato tutti i giorni per molti anni, dove da
tre anni non vado più. Il giardino, il fruttivendolo, il bar,
l'unico attraversamento pedonale del sistema solare dove le macchine
passano lo stesso anche quando c'è il verde per chi vada a piedi e
possono farlo perché hanno il verde anche loro. Già da questi
dettagli si capiva che non lavoravo in un posto normale.
Quando
arrivo davanti al portone, è ancora sbarrato dalla saracinesca, la
portineria e la scala sono buie, lacerti di corrispondenza inevasa
giace come foglie d'autunno oltre la guida per la ferraglia, sul
vetro c'è ancora l'avviso a penna «suonate e dateci il tempo di
venirvi ad aprire», gli ultimi giorni facevamo tutto ancor più di
quanto non avessimo fatto tutto prima. Gli ultimi giorni, prima che
finisse qualcosa anche per noi, che pure in qualche modo siamo
sopravvissuti, anche se sopravvivere a se stessi non è sempre un bel
destino.
Dalla
porta accanto esce un signore che mi pare di riconoscere, devo averlo
già visto da qualche parte, ma non ricordo dove, ha un abito
ottocentesco di sartoria tutto bagnato e sporco, come se fosse appena
riemerso da un'acqua limacciosa, mi dice di essere il direttore del
giornale, di sbrigarmi a salire nel salottino delle interviste, la
persona che attendo arriverà a momenti, ma il direttore che conosco
io è un altro, lui è solo uno di quei matti che girano a
ferragosto, mi guarda e capisce che non gli credo, mi sillaba nome e
cognome e sono quelli del fondatore del mio giornale, ma non può
essere lui, però mi apre la saracinesca e dentro la garitta c'è
l'usciere, anche se è uno che non ho mai visto, timbro il mio
cartellino 96 e quando mi volto il fondatore non c'è più, il suo
ritratto a olio era stato messo in castigo dopo il fallimento di fine
anni Settanta, cose così.
Entro
nel salottino, mi chiudo la porta alle spalle, sento le voci dei
colleghi che salgono e scendono sulle scale, sono gli stessi con cui
ho diviso lo stanzone per decenni, questo minuscolo spazio per fumare
o per i caffè. Qualcuno bussa, entra e in un attimo nel salottino
non c'è nessuno, non ci sono più nemmeno io. Sono tra il forte di
Begato e il ripetitore televisivo che ronza incessante, dal
muricciolo a ridosso della discesa su Granarolo guardiamo in basso là
dove tutto è diventato niente, guardiamo senza dire nulla, poi mi
volto, anzi non mi volto perché non mi sento di riconoscere la
persona che dovrei intervistare, ormai ho capito chi è, e allora
chiedo: perché? La persona mi guarda, lo sento come si sentono gli
sguardi dalle finestre degli animali domestici quando passi in
strada, ti senti osservato anche se non c'è nessuno e poi alzi gli
occhi e vedi un gatto o un cane su un terrazzo. Non è una voce vera
e propria, è qualcosa che sento dentro di me, prendo la penna che
corre invano sul foglio, non c'è inchiostro oppure è secco, eppure
l'avevo comprata da poco, niente funziona quando dovrebbe, niente
accade quando dovrebbe, allora prendo appunti mentalmente, ed è una
risposta che non è una risposta, o meglio mi fa sentire stupido ad
aver fatto questa domanda, è la stessa domanda che si sente fare da
sempre, lei o i suoi referenti immediati, ogni volta che accade
qualcosa che non riusciamo a comprendere, noi che essendo andati
sulla luna e avendo spezzato il nucleo ci eravamo illusi alla fine
del secolo scorso di aver capito quasi tutto e invece c'è qualcosa
che non si capisce, o meglio si capisce soltanto a un prezzo
altissimo e quando è tardi, quindi è meglio non capire, meglio non
avere risposta e quindi è inutile e nocivo domandare, ne vorrei fare
un'altra, una qualsiasi per non allontanare la persona che ho
accanto, ma adesso il ronzio del ripetitore si fa più intenso, copre
la mia voce, un battito di palpebre e sono di nuovo davanti alla
serranda chiusa del mio giornale, a recitare il Kaddish a bocca
chiusa, per chiunque ascolti dove non ci sono né voci né silenzio.
E non serve a niente questa mia intervista che non è riuscita, ma
tanto non avrei saputo dove pubblicarla, nessuno mi avrebbe creduto e
anche io sono qui a pensare di aver confuso il mio desiderio con le
mie sensazioni. Ma sono giorni così, giorni in cui ci aggiriamo
all'interno di noi stessi dopo aver perso l'orientamento, giorni in
cui più che in altri avremmo bisogno dell'invisibile carezza di un
custode.
Nessun commento:
Posta un commento