domenica 19 agosto 2018

L'invisibile carezza di un custode



Adesso dovrei pure farla, questa intervista. Non ci è ancora riuscito nessuno e quindi figurati se ce la posso fare io, ma ci proverò lo stesso, visto che nelle cose semplici sono sempre inciampato, trovandomi meglio con quelle impossibili. Se avessi ancora un direttore, sarei già stato spedito a farla, ma non ho più un direttore e allora mi ci mando da solo. Non ho preso appuntamento, tanto non serve, la persona che devo intervistare non è da nessuna parte ma sta dappertutto, se vuol farsi trovare ci riesce e se vuole nascondersi idem. Comunque ho preso il blocchetto e la bic, meglio scrivere ché coi registratorini non si sa mai, tu parli e ascolti e poi scopri che non è rimasto niente, una volta il tasto rec, l'altra la pila, insomma quando ho registrato ho anche sempre scritto.
Sto andando dove penso di trovarla, a casa sua, per lo meno là dove la sua presenza è meno rimossa che altrove, o meglio non è accantonata. Mi sono vestito come piacerebbe a lei, come se fosse un segno di riconoscimento, come Dennis Hopper nel film di Wenders. Ma mentre sto andando a un incontro che non ci sarà, all'altezza del ponte di Sant'Agata sento di dover cambiare percorso, anche se mi fa male tornare dove sono andato tutti i giorni per molti anni, dove da tre anni non vado più. Il giardino, il fruttivendolo, il bar, l'unico attraversamento pedonale del sistema solare dove le macchine passano lo stesso anche quando c'è il verde per chi vada a piedi e possono farlo perché hanno il verde anche loro. Già da questi dettagli si capiva che non lavoravo in un posto normale.
Quando arrivo davanti al portone, è ancora sbarrato dalla saracinesca, la portineria e la scala sono buie, lacerti di corrispondenza inevasa giace come foglie d'autunno oltre la guida per la ferraglia, sul vetro c'è ancora l'avviso a penna «suonate e dateci il tempo di venirvi ad aprire», gli ultimi giorni facevamo tutto ancor più di quanto non avessimo fatto tutto prima. Gli ultimi giorni, prima che finisse qualcosa anche per noi, che pure in qualche modo siamo sopravvissuti, anche se sopravvivere a se stessi non è sempre un bel destino.
Dalla porta accanto esce un signore che mi pare di riconoscere, devo averlo già visto da qualche parte, ma non ricordo dove, ha un abito ottocentesco di sartoria tutto bagnato e sporco, come se fosse appena riemerso da un'acqua limacciosa, mi dice di essere il direttore del giornale, di sbrigarmi a salire nel salottino delle interviste, la persona che attendo arriverà a momenti, ma il direttore che conosco io è un altro, lui è solo uno di quei matti che girano a ferragosto, mi guarda e capisce che non gli credo, mi sillaba nome e cognome e sono quelli del fondatore del mio giornale, ma non può essere lui, però mi apre la saracinesca e dentro la garitta c'è l'usciere, anche se è uno che non ho mai visto, timbro il mio cartellino 96 e quando mi volto il fondatore non c'è più, il suo ritratto a olio era stato messo in castigo dopo il fallimento di fine anni Settanta, cose così.

Entro nel salottino, mi chiudo la porta alle spalle, sento le voci dei colleghi che salgono e scendono sulle scale, sono gli stessi con cui ho diviso lo stanzone per decenni, questo minuscolo spazio per fumare o per i caffè. Qualcuno bussa, entra e in un attimo nel salottino non c'è nessuno, non ci sono più nemmeno io. Sono tra il forte di Begato e il ripetitore televisivo che ronza incessante, dal muricciolo a ridosso della discesa su Granarolo guardiamo in basso là dove tutto è diventato niente, guardiamo senza dire nulla, poi mi volto, anzi non mi volto perché non mi sento di riconoscere la persona che dovrei intervistare, ormai ho capito chi è, e allora chiedo: perché? La persona mi guarda, lo sento come si sentono gli sguardi dalle finestre degli animali domestici quando passi in strada, ti senti osservato anche se non c'è nessuno e poi alzi gli occhi e vedi un gatto o un cane su un terrazzo. Non è una voce vera e propria, è qualcosa che sento dentro di me, prendo la penna che corre invano sul foglio, non c'è inchiostro oppure è secco, eppure l'avevo comprata da poco, niente funziona quando dovrebbe, niente accade quando dovrebbe, allora prendo appunti mentalmente, ed è una risposta che non è una risposta, o meglio mi fa sentire stupido ad aver fatto questa domanda, è la stessa domanda che si sente fare da sempre, lei o i suoi referenti immediati, ogni volta che accade qualcosa che non riusciamo a comprendere, noi che essendo andati sulla luna e avendo spezzato il nucleo ci eravamo illusi alla fine del secolo scorso di aver capito quasi tutto e invece c'è qualcosa che non si capisce, o meglio si capisce soltanto a un prezzo altissimo e quando è tardi, quindi è meglio non capire, meglio non avere risposta e quindi è inutile e nocivo domandare, ne vorrei fare un'altra, una qualsiasi per non allontanare la persona che ho accanto, ma adesso il ronzio del ripetitore si fa più intenso, copre la mia voce, un battito di palpebre e sono di nuovo davanti alla serranda chiusa del mio giornale, a recitare il Kaddish a bocca chiusa, per chiunque ascolti dove non ci sono né voci né silenzio. E non serve a niente questa mia intervista che non è riuscita, ma tanto non avrei saputo dove pubblicarla, nessuno mi avrebbe creduto e anche io sono qui a pensare di aver confuso il mio desiderio con le mie sensazioni. Ma sono giorni così, giorni in cui ci aggiriamo all'interno di noi stessi dopo aver perso l'orientamento, giorni in cui più che in altri avremmo bisogno dell'invisibile carezza di un custode.

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