Sono
venuto fin qui, ad ascoltare il silenzio del vento. L'edicola mariana
è sbarrata, secchi i fiori della devozione, inesaudite quasi tutte
le preghiere impigliate nel ferro battuto verniciato di scuro. Dal
vecchio ponte dove San Pier d'Arena diventa Cornigliano, mentre al di
sotto quel che resta del torrente viene a svanire o rinascere nel
mare, il gigante spezzato sembra una mano protesa verso un'altra che
non c'è più. Manca un pilone ed è quello che martedì mattina si è
accartocciato in una specie di piramide cestia, di nuraghe, di trullo
infelice, un cupo gioco dello shanghai, chinandosi come a soccorrere
quella parte di sé che si era infranta. Dicono che anche le cose
patiscano una propria stanchezza, che anche il ferro abbia un'anima,
il cemento una melanconia: la pioggia ha fatto da carillon
dell'inferno, forse, ha chiamato dal fondo del pozzo dell'inaccaduto,
anzi dell'inaccadibile, il lancio dei dadi che non torna nel numero.
E adesso non resta che osservare quel che resta, dal vetro dietro il
vetro dove la Vergine guarda verso il filo indaco che divide il cielo
dall'acqua salata.
Poi,
trovare l'animo di risalire via Perlasca, passo dopo passo,
lentamente, in un deserto di voci che trasforma in bianco e nero
tutto il panorama. Dall'altra parte dell'argine, lo smisurato lego
dei contenitori nasconde quel che resta di Certosa. I platani si
chinano cadenzati su via Fillak come corazzieri sbigottiti, la
saracinesca abbassata della “Tana” è solo una delle palpebre
serrate di una zona dove è passata la guerra, dove la guerra è
appena cominciata, coi suoi bombardamenti senza bombe, la gente in
strada nell'andirivieni delle valigie a rotelle, in attesa della
cornice col diploma, la medaglia della pensione, la coppa della
bocciofila, i gatti impauriti nascosti sotto il letto. Butteranno giù
anche quelle case sotto il gigante e saranno gli artificieri a farlo,
poi tutto cambierà e per sempre, come se non fosse già cambiato.
All'altezza
del mobilificio svedese, finisce il cammino. Mi sporgo appena dalla
ringhiera arrugginita, divenuta la barcaccia delle emittenti venute
da ogni parte del pianeta. Non riesco a ricordare l'ultima delle
mille e mille volte che sono passato là sopra, e neppure l'ultima in
cui l'ho guardato da un oblò di destra dell'aeroplano, chi vive a
Genova chiede sempre un posto finestrino a destra, sia per vedere la
città, sia per capire appunto dal ponte sul Polcevera come sarà
l'atterraggio: se lo vedi star fermo, vuol dire che l'aereo è in
asse di equilibrio, altrimenti si balla. E quasi sempre si balla.
Dall'aereo
si vedono le macchine come coccinelle, le persone come formichine.
Adesso è dal penultimo ponticello sul torrente che vedo come
coccinelle le macchine lassù, ferme e desolate come cani alla sbarra
del supermercato, come formichine i soccorritori che tentano di
riportarle in salvo, oltre la galleria di Coronata.
Guardo
quel che non c'è più, quel tronco di cemento armato svanito nel
nulla, ricomposto sul greto dove un quadrangolo di asfalto rimasto
intatto spicca come una carta da poker, coi semi disegnati in vernice
bianca. Il grosso menhir al cui interno pulsa forse ancora la
speranza è attorniato dalle cavallette gialle di acciaio, mentre
altre formichine sono i soccorritori con le cerate abbaglianti.
Intanto è il silenzio del vento che sono venuto ad ascoltare fin
qui, un silenzio che allaga la zona e sbigottisce gli sguardi, le
mani dei superstiti, quindi di tutti noi.
Col
pensiero si potrebbe tutto e allora col pensiero provo a tracciare la
linea sbriciolata, a riportare il gigante a essere un ponte. Guardo
il cielo sopra Bolzaneto e penso ai cartoni animati, a Wile il Coyote
che cammina sullo spuntone di roccia a strapiombo sul canyon, a
quella gag che un po' a noi bambini anzi ragazzi anzi anche adesso
faceva e fa ridere, un po' però pure inquietava e inquieta. A un
certo punto lo spuntone di roccia va in frantumi, il coyote col suo
schioppo o il candelotto di dinamite non se ne accorge e allora
continua a camminare, in cerca di quel maledetto struzzo da fare
arrosto, passo dopo passo cammina nel vuoto, poi a un certo punto se
ne avvede, allora si interrompe, sospeso a centinaia di metri di
altezza, si volta verso il telespettatore, guarda in macchina,
strabuzza gli occhi, fa un cenno di saluto e poi precipita. Ma questo
non è un cartone animato e non è neppure un film, anche se attorno
a me sembra davvero di stare su un set, tra telecamere e fanali e
correttori d'ombra e potenziometri e ogni arnese per raccontare il
reale oppure farne altro.
Ma
non c'è niente da raccontare, o meglio c'è da raccontare il niente.
Il cemento armato del Morandi è lo stesso di quasi tutte le chiese
costruite dopo l'ultima guerra, quando il sacro sembrava ineffabile o
meglio indegno di un'esplicazione. Guardo le macerie nel greto e
sembrano una delle teste accigliate della Casa Pedrera, guardo ancora
verso l'alto e vorrei vedere l'arcangelo che ripone la spada nel
fodero, che viene a riprendersi le anime perdute in volo, a
rimandarle tra noi, come se fosse stato appunto tutto un film. Una
rovina romana, oppure, uno di quei monumenti scampati ai millenni e
alla barbarie e alla barbarie dei millenni, un testimone silenzioso
lasciato lì da nessuno.
Ma
il vento fa ancora silenzio, anche sui miei pensieri, li scompagina e
li confonde. Sono venuto fin qui, a dire una preghiera che non so
dire, perché mi è difficile capire a chi rivolgerla, perché le
parole se ne vanno appunto nel vento. Passeranno i giorni e gli anni
brevi come giorni, i colori dell'autunno sfumeranno in quelli
dell'estate, rincorrendosi nella giostra del tempo, fino a quando si
stancherà anche il sole di bruciare. Ma questo non sarà per noi,
penso mentre osservo ancora una volta l'assenza, il vuoto, il nulla,
il ponte che non è più un ponte eppure da una parte e l'altra lo
sembrerebbe ancora.
Non
c'è che da lasciare sola tutta quella solitudine, penso mentre mi
riavvio sulla strada d'argine, volgendo le spalle alla rovina. Mi
chiedo se tra le pietre e le erbe infestanti ci siano i piccioni, i
gabbiani, i cinghiali, ma gli animali sembrano essersene andati
tutti, inorriditi e commossi e forse percorsi da una forma
inattingibile di pietà. Ma vedo scivolare sull'acqua, anche se in
questo agosto nel letto del torrente non c'è acqua, uno strano
battello, un vaporetto veneziano, che naviga lentamente verso la
foce. Affacciati al parapetto vedo uomini e donne e bambini, alcune
decine, tutti sporti verso la mia riva, tutti a guardarmi, credo di
riconoscerli perché mi sembra di averli visti da non molto, non
ricordo dove, forse sui giornali, mi guardano con aria interrogativa
e perplessa, nel silenzio del vento che si fa impetuoso, il silenzio
e non il vento, guardo meglio e al posto delle teste adesso ci sono
quegli ovali dei manichini anatomici che servono per gli studenti di
belle arti, di pittura o di scultura, non sono persone o forse lo
sono state eppure sono già ricordi, li guardo e adesso non li
riconosco ma li riconosco, vorrei dir loro di stare attenti, ché
quel vaporetto non ci passa sotto il ponte di Cornigliano, di dire al
comandante di fermarsi e di farli proseguire a piedi. Ma il vaporetto
prosegue, a me resta di far loro un cenno di saluto con la mano,
ormai sono lontani quando capisco che era a loro, per loro che dovevo
rivolgere la preghiera che ho dimenticato, il vaporetto passa
attraverso il ponte, si allontana verso l'orizzonte, lambendo la
sagoma di Castello Raggio, lasciandomi solo ad ascoltare il silenzio
del vento.
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