venerdì 17 agosto 2018

Un vaporetto sul Polcevera



Sono venuto fin qui, ad ascoltare il silenzio del vento. L'edicola mariana è sbarrata, secchi i fiori della devozione, inesaudite quasi tutte le preghiere impigliate nel ferro battuto verniciato di scuro. Dal vecchio ponte dove San Pier d'Arena diventa Cornigliano, mentre al di sotto quel che resta del torrente viene a svanire o rinascere nel mare, il gigante spezzato sembra una mano protesa verso un'altra che non c'è più. Manca un pilone ed è quello che martedì mattina si è accartocciato in una specie di piramide cestia, di nuraghe, di trullo infelice, un cupo gioco dello shanghai, chinandosi come a soccorrere quella parte di sé che si era infranta. Dicono che anche le cose patiscano una propria stanchezza, che anche il ferro abbia un'anima, il cemento una melanconia: la pioggia ha fatto da carillon dell'inferno, forse, ha chiamato dal fondo del pozzo dell'inaccaduto, anzi dell'inaccadibile, il lancio dei dadi che non torna nel numero. E adesso non resta che osservare quel che resta, dal vetro dietro il vetro dove la Vergine guarda verso il filo indaco che divide il cielo dall'acqua salata.
Poi, trovare l'animo di risalire via Perlasca, passo dopo passo, lentamente, in un deserto di voci che trasforma in bianco e nero tutto il panorama. Dall'altra parte dell'argine, lo smisurato lego dei contenitori nasconde quel che resta di Certosa. I platani si chinano cadenzati su via Fillak come corazzieri sbigottiti, la saracinesca abbassata della “Tana” è solo una delle palpebre serrate di una zona dove è passata la guerra, dove la guerra è appena cominciata, coi suoi bombardamenti senza bombe, la gente in strada nell'andirivieni delle valigie a rotelle, in attesa della cornice col diploma, la medaglia della pensione, la coppa della bocciofila, i gatti impauriti nascosti sotto il letto. Butteranno giù anche quelle case sotto il gigante e saranno gli artificieri a farlo, poi tutto cambierà e per sempre, come se non fosse già cambiato.
All'altezza del mobilificio svedese, finisce il cammino. Mi sporgo appena dalla ringhiera arrugginita, divenuta la barcaccia delle emittenti venute da ogni parte del pianeta. Non riesco a ricordare l'ultima delle mille e mille volte che sono passato là sopra, e neppure l'ultima in cui l'ho guardato da un oblò di destra dell'aeroplano, chi vive a Genova chiede sempre un posto finestrino a destra, sia per vedere la città, sia per capire appunto dal ponte sul Polcevera come sarà l'atterraggio: se lo vedi star fermo, vuol dire che l'aereo è in asse di equilibrio, altrimenti si balla. E quasi sempre si balla.
Dall'aereo si vedono le macchine come coccinelle, le persone come formichine. Adesso è dal penultimo ponticello sul torrente che vedo come coccinelle le macchine lassù, ferme e desolate come cani alla sbarra del supermercato, come formichine i soccorritori che tentano di riportarle in salvo, oltre la galleria di Coronata.
Guardo quel che non c'è più, quel tronco di cemento armato svanito nel nulla, ricomposto sul greto dove un quadrangolo di asfalto rimasto intatto spicca come una carta da poker, coi semi disegnati in vernice bianca. Il grosso menhir al cui interno pulsa forse ancora la speranza è attorniato dalle cavallette gialle di acciaio, mentre altre formichine sono i soccorritori con le cerate abbaglianti. Intanto è il silenzio del vento che sono venuto ad ascoltare fin qui, un silenzio che allaga la zona e sbigottisce gli sguardi, le mani dei superstiti, quindi di tutti noi.
Col pensiero si potrebbe tutto e allora col pensiero provo a tracciare la linea sbriciolata, a riportare il gigante a essere un ponte. Guardo il cielo sopra Bolzaneto e penso ai cartoni animati, a Wile il Coyote che cammina sullo spuntone di roccia a strapiombo sul canyon, a quella gag che un po' a noi bambini anzi ragazzi anzi anche adesso faceva e fa ridere, un po' però pure inquietava e inquieta. A un certo punto lo spuntone di roccia va in frantumi, il coyote col suo schioppo o il candelotto di dinamite non se ne accorge e allora continua a camminare, in cerca di quel maledetto struzzo da fare arrosto, passo dopo passo cammina nel vuoto, poi a un certo punto se ne avvede, allora si interrompe, sospeso a centinaia di metri di altezza, si volta verso il telespettatore, guarda in macchina, strabuzza gli occhi, fa un cenno di saluto e poi precipita. Ma questo non è un cartone animato e non è neppure un film, anche se attorno a me sembra davvero di stare su un set, tra telecamere e fanali e correttori d'ombra e potenziometri e ogni arnese per raccontare il reale oppure farne altro.
Ma non c'è niente da raccontare, o meglio c'è da raccontare il niente. Il cemento armato del Morandi è lo stesso di quasi tutte le chiese costruite dopo l'ultima guerra, quando il sacro sembrava ineffabile o meglio indegno di un'esplicazione. Guardo le macerie nel greto e sembrano una delle teste accigliate della Casa Pedrera, guardo ancora verso l'alto e vorrei vedere l'arcangelo che ripone la spada nel fodero, che viene a riprendersi le anime perdute in volo, a rimandarle tra noi, come se fosse stato appunto tutto un film. Una rovina romana, oppure, uno di quei monumenti scampati ai millenni e alla barbarie e alla barbarie dei millenni, un testimone silenzioso lasciato lì da nessuno.
Ma il vento fa ancora silenzio, anche sui miei pensieri, li scompagina e li confonde. Sono venuto fin qui, a dire una preghiera che non so dire, perché mi è difficile capire a chi rivolgerla, perché le parole se ne vanno appunto nel vento. Passeranno i giorni e gli anni brevi come giorni, i colori dell'autunno sfumeranno in quelli dell'estate, rincorrendosi nella giostra del tempo, fino a quando si stancherà anche il sole di bruciare. Ma questo non sarà per noi, penso mentre osservo ancora una volta l'assenza, il vuoto, il nulla, il ponte che non è più un ponte eppure da una parte e l'altra lo sembrerebbe ancora.

Non c'è che da lasciare sola tutta quella solitudine, penso mentre mi riavvio sulla strada d'argine, volgendo le spalle alla rovina. Mi chiedo se tra le pietre e le erbe infestanti ci siano i piccioni, i gabbiani, i cinghiali, ma gli animali sembrano essersene andati tutti, inorriditi e commossi e forse percorsi da una forma inattingibile di pietà. Ma vedo scivolare sull'acqua, anche se in questo agosto nel letto del torrente non c'è acqua, uno strano battello, un vaporetto veneziano, che naviga lentamente verso la foce. Affacciati al parapetto vedo uomini e donne e bambini, alcune decine, tutti sporti verso la mia riva, tutti a guardarmi, credo di riconoscerli perché mi sembra di averli visti da non molto, non ricordo dove, forse sui giornali, mi guardano con aria interrogativa e perplessa, nel silenzio del vento che si fa impetuoso, il silenzio e non il vento, guardo meglio e al posto delle teste adesso ci sono quegli ovali dei manichini anatomici che servono per gli studenti di belle arti, di pittura o di scultura, non sono persone o forse lo sono state eppure sono già ricordi, li guardo e adesso non li riconosco ma li riconosco, vorrei dir loro di stare attenti, ché quel vaporetto non ci passa sotto il ponte di Cornigliano, di dire al comandante di fermarsi e di farli proseguire a piedi. Ma il vaporetto prosegue, a me resta di far loro un cenno di saluto con la mano, ormai sono lontani quando capisco che era a loro, per loro che dovevo rivolgere la preghiera che ho dimenticato, il vaporetto passa attraverso il ponte, si allontana verso l'orizzonte, lambendo la sagoma di Castello Raggio, lasciandomi solo ad ascoltare il silenzio del vento.


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