martedì 14 agosto 2018

NON ERA LA LANTERNA



Non era la Lanterna ma le assomigliava. Era qualcosa che a differenza della Sopraelevata era bello anche vedere dal basso, con quelle bretellone a compasso che ne scandivano l'incedere di ferro e calcestruzzo. Non era la Lanterna, ma era un simbolo anche lui: i fari illuminano, indicano la fine della strada d'acqua. I ponti invece uniscono, agevolano il cammino.
A vederlo dal basso, sembrava davvero vecchio e malconcio, quasi sempre avvolto di ponteggi e transenne. Correndoci sopra, quasi scivolandoci al prezzo sinistro di presaghi sobbalzi, invece osservavi il vecchio gasometro, la torre Selex, il mare e il santuario della Guardia, era un volo da e per l'aeroporto, prima e dopo le trasferte al Sud e all'estero. Sotto invece c'erano Certosa, il Campasso, via Fillak, tutte zone a me care al punto di percorrerle passo dopo passo a caccia di fantasmi, per uno dei miei romanzi. È una Genova che non è più la grande Genova, non lo è mai stata davvero, ma una serie di comunità con la propria stazione, il proprio municipio, la pubblica assistenza, il dopolavoro. È una Genova che si rispecchia nel Polcevera anche quando il greto è riarso e stoppioso.
È una Genova che è finita stamattina, in un quasi mezzogiorno pieno di pioggia, quando il grande “ponte di Brooklyn” - che molti di noi avevano e avrebbero visto soltanto sulle confezioni delle gomme da masticare, oppure al cinema – si è sbriciolato come se si fosse stancato di esistere, di sopportare tutto quell'andirivieni sulla schiena di grossi coleotteri a motore. E adesso tutto è finito, tutto è cambiato per sempre. Passeranno mesi, forse anni, prima che si riesca ad andare da un capo all'altra della città, della regione stessa, senza ridiscendere nell'aggrovigliato reticolo d'asfalto tra San Pier d'Arena e Sestri.

Non è crollato soltanto un ponte. Si è spezzata, d'un tratto, la colonna vertebrale della città dove per lavorare ero venuto a vivere, da dove ho sperato senza riuscirci di andarmene, dove sono rimasto a contemplare la mia e altre ombre. Non so quando riuscirò a lasciarmi alle spalle piazza Masnata, per andare a vedere da vicino la fine della fine, quel mozzicone rimasto, prima che buttino giù anche lui. Quella vallata e le sue case e la sua gente orgogliosa e forte, con radici profonde quanto gli sguardi e le anime, tutto quel che stava attorno al Polcevera mi si era apparentato, uomini e cose mi erano diventati amici compagni fratelli. E adesso il senso di vuoto si moltiplica, in questa città svuotata dal ferragosto e striata per tutto il giorno dal rombo degli elicotteri, dall'urlo delle sirene, dalle accelerazioni ai semafori dei furgoni della mortuaria scortati dalle auto dei carabinieri, dall'angoscia dei giornalisti riservisti richiamati in servizio nel vuoto estivo delle redazioni, perché anche noi giornalisti siamo uomini e soffriamo come gli altri, a volte anche più. C'è da oggi in città un odore di morte che arriva da ogni dove, che si respira in tutti gli angoli, perfino i gatti del mio vicolo hanno lo sguardo triste, perché i gatti lo sanno. Tra molti anni, ci si chiederà “dov'eri quando cadde il Ponte di Brooklyn”, come ci si chiede dov'eri quando era straripato il Fereggiano, quando cadde la Torre Piloti, quando naufragò la Concordia oppure la London Valour. Scorrerà il tempo come scorrono i fiumi sulle pietre, carezzandole e levigandole, costruiranno un altro viadotto dalla Colisa alla collina che dalla parte opposta ha la cittadella della Castagna dove dormono i sampierdarenesi, la vita continuerà a danzare con la sua gemella, madre e figlia. E noi continueremo a non capirne il senso e la cadenza. Prima di passare il ponte e forse anche dopo.

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