Non
era la Lanterna ma le assomigliava. Era qualcosa che a differenza
della Sopraelevata era bello anche vedere dal basso, con quelle
bretellone a compasso che ne scandivano l'incedere di ferro e
calcestruzzo. Non era la Lanterna, ma era un simbolo anche lui: i
fari illuminano, indicano la fine della strada d'acqua. I ponti
invece uniscono, agevolano il cammino.
A
vederlo dal basso, sembrava davvero vecchio e malconcio, quasi sempre
avvolto di ponteggi e transenne. Correndoci sopra, quasi scivolandoci
al prezzo sinistro di presaghi sobbalzi, invece osservavi il vecchio
gasometro, la torre Selex, il mare e il santuario della Guardia, era
un volo da e per l'aeroporto, prima e dopo le trasferte al Sud e
all'estero. Sotto invece c'erano Certosa, il Campasso, via Fillak,
tutte zone a me care al punto di percorrerle passo dopo passo a
caccia di fantasmi, per uno dei miei romanzi. È una Genova che non è
più la grande Genova, non lo è mai stata davvero, ma una serie di
comunità con la propria stazione, il proprio municipio, la pubblica
assistenza, il dopolavoro. È una Genova che si rispecchia nel
Polcevera anche quando il greto è riarso e stoppioso.
È
una Genova che è finita stamattina, in un quasi mezzogiorno pieno di
pioggia, quando il grande “ponte di Brooklyn” - che molti di noi
avevano e avrebbero visto soltanto sulle confezioni delle gomme da
masticare, oppure al cinema – si è sbriciolato come se si fosse
stancato di esistere, di sopportare tutto quell'andirivieni sulla
schiena di grossi coleotteri a motore. E adesso tutto è finito,
tutto è cambiato per sempre. Passeranno mesi, forse anni, prima che
si riesca ad andare da un capo all'altra della città, della regione
stessa, senza ridiscendere nell'aggrovigliato reticolo d'asfalto tra
San Pier d'Arena e Sestri.
Non
è crollato soltanto un ponte. Si è spezzata, d'un tratto, la
colonna vertebrale della città dove per lavorare ero venuto a
vivere, da dove ho sperato senza riuscirci di andarmene, dove sono
rimasto a contemplare la mia e altre ombre. Non so quando riuscirò a
lasciarmi alle spalle piazza Masnata, per andare a vedere da vicino
la fine della fine, quel mozzicone rimasto, prima che buttino giù
anche lui. Quella vallata e le sue case e la sua gente orgogliosa e
forte, con radici profonde quanto gli sguardi e le anime, tutto quel
che stava attorno al Polcevera mi si era apparentato, uomini e cose
mi erano diventati amici compagni fratelli. E adesso il senso di
vuoto si moltiplica, in questa città svuotata dal ferragosto e
striata per tutto il giorno dal rombo degli elicotteri, dall'urlo
delle sirene, dalle accelerazioni ai semafori dei furgoni della
mortuaria scortati dalle auto dei carabinieri, dall'angoscia dei
giornalisti riservisti richiamati in servizio nel vuoto estivo delle
redazioni, perché anche noi giornalisti siamo uomini e soffriamo
come gli altri, a volte anche più. C'è da oggi in città un odore
di morte che arriva da ogni dove, che si respira in tutti gli angoli,
perfino i gatti del mio vicolo hanno lo sguardo triste, perché i
gatti lo sanno. Tra molti anni, ci si chiederà “dov'eri quando
cadde il Ponte di Brooklyn”, come ci si chiede dov'eri quando era
straripato il Fereggiano, quando cadde la Torre Piloti, quando
naufragò la Concordia oppure la London Valour. Scorrerà il tempo
come scorrono i fiumi sulle pietre, carezzandole e levigandole,
costruiranno un altro viadotto dalla Colisa alla collina che dalla
parte opposta ha la cittadella della Castagna dove dormono i
sampierdarenesi, la vita continuerà a danzare con la sua gemella,
madre e figlia. E noi continueremo a non capirne il senso e la
cadenza. Prima di passare il ponte e forse anche dopo.
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