Avvertenza.
Questo post non solo è impopolare, ma è anche noioso. Io vi ho
avvisato.
È
noioso perché nasce dalla noia.
Mi
hanno infatti annoiato certe puntualizzazioni, peraltro cortesi e
quasi tutte in privato, riguardo a una mia osservazione di ieri a
proposito del caso-Diciotti.
In
definitiva, mi si rimproverava l'uso del termine “clandestini”,
al posto – immagino - del politicamente più corretto “migranti”.
Il
senso dei messaggi era riassumibile nei fortunati quanto suggestivi
slogan «Non esistono uomini illegali» e «Nessun uomo nasce
clandestino». Fortunati e suggestivi, ma purtroppo uno slogan.
Secondo
avvertimento. Questo post ora diventa molto noioso, perché mi tocca
rispolverare la distinzione tra giusnaturalismo e giuspositivismo,
due tra le principali scuole di pensiero nella filosofia del diritto.
Secondo
la prima, ci sono valori intangibili – primo tra tutti, per
esempio, il rispetto della vita umana - che sfuggono alla
codificazione normativa e ne sopravanzano eventuali deroghe formali,
mentre nella seconda soltanto quel che sia previsto per legge è
degno di osservanza.
I
problemi sorgono quando si voglia applicare il giuspositivismo,
proprio di tutte le società moderne, secondo una visione
giusnaturalista. Sorprendentemente, l'adozione di questa prospettiva
sembra sovrapporsi alla logica ratzingeriana dei “valori non
negoziabili”, opposta alla “dittatura del relativismo” propria
del presente.
Bisogna
allora fare ordine e distinguere le affermazioni descrittive da
quelle prescrittive.
Ovvio
che «nessun uomo è clandestino», perché non esiste codificazione
giuspositivista che neghi ad alcuno il diritto a esistere. Ma il
diritto all'esistenza, canone indefettibile di ogni idea
giusnaturalista, non ha come necessario corollario il diritto
assoluto a star meglio di come si stia, quindi – per farla breve –
il diritto a lasciare il posto del mondo dove si sia nati per
trasferirsi di propria iniziativa e senza alcun vincolo in un altro
posto di proprio gradimento.
In
questo senso, e solo in questo, si può ben definire “clandestino”
chiunque ignori volutamente tale disposizione, presente in tutti gli
ordinamenti giuridici del mondo contemporaneo.
Non
esiste infatti uno Stato dove si possa entrare e dove ci si possa
stabilire legalmente senza aver superato un sistema più o meno
vincolante di controlli, che vanno dalla richiesta preventiva
presentata alla corrispondente autorità diplomatica nel Paese di
provenienza, fino all'accesso autorizzato presso i posti di frontiera
terrestri, navali e aeroportuali con dotazione di documenti di
identità, certificazioni sanitarie e penali, attestazioni di
disponibilità economica sufficiente a garantirsi una degna
permanenza anche provvisoria.
Ogni
altra soluzione, se ci si voglia attenere alla codificazione
legislativa positiva, non può che collocarsi in un ambito di
clandestinità.
Se
invece vogliamo rimodulare l'immigrazione, perché è di questo che
stiamo parlando, in una cornice valoriale di nobile ispirazione
giusnaturalista, che fa coincidere nell'individuo aspirazione e
diritto, per cui il singolo individuo sia legittimato a fare tutto
quel che pensa lo faccia stare meglio, ci avviamo proprio sullo
sdrucciolevolissimo terreno del relativismo assoluto.
Se
nessun uomo infatti nasce clandestino, neppure nessun uomo nasce
ladro neanche nel caso in cui si impossessi di un bene altrui, oppure
assassino neanche nel caso in cui uccida un altro uomo. Sono le
leggi, queste in gran parte di ispirazione giusnaturalista, a punire
il furto e l'omicidio e sul punto credo nessuno possa obiettare alcun
che.
Ma
il limite del giusnaturalismo è proprio l'impossibilità di una
definizione oggettiva e condivisa del proprio perimetro. Se
sull'omicidio direi ci sia concordia generale o quasi, sul furto
l'unanimità è meno solida, per via delle obiezioni ottocentesche
sulla proprietà privata e del riconoscimento della necessità
nell'indigenza e di alcune tradizioni di comunità. Dove il dissidio
è davvero lacerante, a livello mondiale, è nelle questioni di
bioetica: aborto, eutanasia, suicidio assistito, uso scientifico
delle cellule staminali, riconoscimento della parità di condizione
tra uomo e animali.
L'ambizione
a migliorare la propria vita è un moto dell'animo certamente non
sopprimibile, ma difficilmente trova universale e incondizionata
accoglienza codificata nella legislazione di uno Stato straniero.
E
se, per eclissare l'odiato termine “clandestino” - che non è un
termine dispregiativo ma strettamente tecnico-giuridico - arriviamo a
sostenere che gli Stati debbano abbandonare il complesso di regole
approvate a tutela dei suoi stessi elementi costitutivi (popolo,
nazione e territorio), allora si apre un varco attraverso il quale
può passare tutto o quasi.
Se
io posso migliorare la mia vita appropriandomi di un oggetto non mio
che mi piace tanto, seducendo una minorenne che mi piace tanto anche
lei, evadendo il fisco in maniera da avere più soldi da spendere per
me, investendo sulle strisce il capufficio che mi vessa, perché
impedirmelo e a che titolo parla chi voglia impedirmelo? Le leggi? Ma
quelle leggi non mi piacciono, perché limitano la mia libertà di
perseguire quel che mi fa stare meglio.
Mi
si obietterà che l'ingresso illegale sul territorio nazionale non
può essere equiparato a reati di senso comune condiviso nella
percezione di gravità come furto, stupro, evasione fiscale e
omicidio.
Ma
allora si arriva ad attribuire al principio di legalità una
connotazione graduale: connotazione che diventa arbitraria e che
quindi di fatto annulla il medesimo principio. L'esatto contrario
dello Stato di diritto. E lo Stato di diritto o vale sempre o non può
valere caso per caso.
Non
posso da una parte sventolare le leggi che mi piacciono e mi fanno
comodo, dall'altra violare o elogiare la violazione di quelle che non
mi piacciono. Posso battermi per cambiarle, certo. È questa la
sottile differenza, l'abissale differenza tra arbitrio e democrazia.
Vi
siete annoiati? Colpa vostra, io ve l'avevo detto.
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