giovedì 6 settembre 2018

La carrozza di Hans



Avvertenza. Questo post non solo è impopolare, ma è anche noioso. Io vi ho avvisato.
È noioso perché nasce dalla noia.
Mi hanno infatti annoiato certe puntualizzazioni, peraltro cortesi e quasi tutte in privato, riguardo a una mia osservazione di ieri a proposito del caso-Diciotti.
In definitiva, mi si rimproverava l'uso del termine “clandestini”, al posto – immagino - del politicamente più corretto “migranti”.
Il senso dei messaggi era riassumibile nei fortunati quanto suggestivi slogan «Non esistono uomini illegali» e «Nessun uomo nasce clandestino». Fortunati e suggestivi, ma purtroppo uno slogan.
Secondo avvertimento. Questo post ora diventa molto noioso, perché mi tocca rispolverare la distinzione tra giusnaturalismo e giuspositivismo, due tra le principali scuole di pensiero nella filosofia del diritto.
Secondo la prima, ci sono valori intangibili – primo tra tutti, per esempio, il rispetto della vita umana - che sfuggono alla codificazione normativa e ne sopravanzano eventuali deroghe formali, mentre nella seconda soltanto quel che sia previsto per legge è degno di osservanza.
I problemi sorgono quando si voglia applicare il giuspositivismo, proprio di tutte le società moderne, secondo una visione giusnaturalista. Sorprendentemente, l'adozione di questa prospettiva sembra sovrapporsi alla logica ratzingeriana dei “valori non negoziabili”, opposta alla “dittatura del relativismo” propria del presente.
Bisogna allora fare ordine e distinguere le affermazioni descrittive da quelle prescrittive.
Ovvio che «nessun uomo è clandestino», perché non esiste codificazione giuspositivista che neghi ad alcuno il diritto a esistere. Ma il diritto all'esistenza, canone indefettibile di ogni idea giusnaturalista, non ha come necessario corollario il diritto assoluto a star meglio di come si stia, quindi – per farla breve – il diritto a lasciare il posto del mondo dove si sia nati per trasferirsi di propria iniziativa e senza alcun vincolo in un altro posto di proprio gradimento.
In questo senso, e solo in questo, si può ben definire “clandestino” chiunque ignori volutamente tale disposizione, presente in tutti gli ordinamenti giuridici del mondo contemporaneo.
Non esiste infatti uno Stato dove si possa entrare e dove ci si possa stabilire legalmente senza aver superato un sistema più o meno vincolante di controlli, che vanno dalla richiesta preventiva presentata alla corrispondente autorità diplomatica nel Paese di provenienza, fino all'accesso autorizzato presso i posti di frontiera terrestri, navali e aeroportuali con dotazione di documenti di identità, certificazioni sanitarie e penali, attestazioni di disponibilità economica sufficiente a garantirsi una degna permanenza anche provvisoria.
Ogni altra soluzione, se ci si voglia attenere alla codificazione legislativa positiva, non può che collocarsi in un ambito di clandestinità.
Se invece vogliamo rimodulare l'immigrazione, perché è di questo che stiamo parlando, in una cornice valoriale di nobile ispirazione giusnaturalista, che fa coincidere nell'individuo aspirazione e diritto, per cui il singolo individuo sia legittimato a fare tutto quel che pensa lo faccia stare meglio, ci avviamo proprio sullo sdrucciolevolissimo terreno del relativismo assoluto.
Se nessun uomo infatti nasce clandestino, neppure nessun uomo nasce ladro neanche nel caso in cui si impossessi di un bene altrui, oppure assassino neanche nel caso in cui uccida un altro uomo. Sono le leggi, queste in gran parte di ispirazione giusnaturalista, a punire il furto e l'omicidio e sul punto credo nessuno possa obiettare alcun che.
Ma il limite del giusnaturalismo è proprio l'impossibilità di una definizione oggettiva e condivisa del proprio perimetro. Se sull'omicidio direi ci sia concordia generale o quasi, sul furto l'unanimità è meno solida, per via delle obiezioni ottocentesche sulla proprietà privata e del riconoscimento della necessità nell'indigenza e di alcune tradizioni di comunità. Dove il dissidio è davvero lacerante, a livello mondiale, è nelle questioni di bioetica: aborto, eutanasia, suicidio assistito, uso scientifico delle cellule staminali, riconoscimento della parità di condizione tra uomo e animali.
L'ambizione a migliorare la propria vita è un moto dell'animo certamente non sopprimibile, ma difficilmente trova universale e incondizionata accoglienza codificata nella legislazione di uno Stato straniero.
E se, per eclissare l'odiato termine “clandestino” - che non è un termine dispregiativo ma strettamente tecnico-giuridico - arriviamo a sostenere che gli Stati debbano abbandonare il complesso di regole approvate a tutela dei suoi stessi elementi costitutivi (popolo, nazione e territorio), allora si apre un varco attraverso il quale può passare tutto o quasi.
Se io posso migliorare la mia vita appropriandomi di un oggetto non mio che mi piace tanto, seducendo una minorenne che mi piace tanto anche lei, evadendo il fisco in maniera da avere più soldi da spendere per me, investendo sulle strisce il capufficio che mi vessa, perché impedirmelo e a che titolo parla chi voglia impedirmelo? Le leggi? Ma quelle leggi non mi piacciono, perché limitano la mia libertà di perseguire quel che mi fa stare meglio.
Mi si obietterà che l'ingresso illegale sul territorio nazionale non può essere equiparato a reati di senso comune condiviso nella percezione di gravità come furto, stupro, evasione fiscale e omicidio.
Ma allora si arriva ad attribuire al principio di legalità una connotazione graduale: connotazione che diventa arbitraria e che quindi di fatto annulla il medesimo principio. L'esatto contrario dello Stato di diritto. E lo Stato di diritto o vale sempre o non può valere caso per caso.
Non posso da una parte sventolare le leggi che mi piacciono e mi fanno comodo, dall'altra violare o elogiare la violazione di quelle che non mi piacciono. Posso battermi per cambiarle, certo. È questa la sottile differenza, l'abissale differenza tra arbitrio e democrazia.

Vi siete annoiati? Colpa vostra, io ve l'avevo detto.

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