domenica 9 settembre 2018

Primum vivere



A quasi un mese dal crollo del ponte, mentre sotto i colpi di tamburo del vivere vanno affievolendosi l'emozione collettiva e l'empatia con le vittime dirette e indirette, i morti e i feriti e gli sfollati e chi si vede stravolti comunque l'esistenza e il lavoro, Genova e l'Italia stanno dimostrando perché questa città e questo Paese, salvo imprevedibili prodigi, siano condannati da se stessi.
Neppure la più grande tragedia del dopoguerra - la più grande, perché il suo bilancio è ben lungi dall'essere definito e anzi la contabilità è appena cominciata, ed è un computo che parte dai morti per riverberarsi sugli effetti anticiclici socioeconomici, che ulteriormente deprimeranno qualità della vita urbana e lavoro locale – abbattutasi sulla città sembra aver riscosso gli animi, chiamato tutti a un singulto di resipiscenza morale, se non addirittura umana.
Chi è morto è morto e andrà a finire che era colpa sua, non doveva passare di lì in quel momento. Chi è sopravvissuto deve ringraziare di essere sopravvissuto e quindi null'altro pretenda. Chi ha il negozio o la pompa di benzina o la pizzeria o l'azienda nei dintorni di quel che resta del ponte si rassegni a veder avvizzire il lavoro di anni e decenni, ha pescato l'ometto nero e pazienza.
Intanto pian pianino, neppure troppo pian pianino, ci si comincia ad accorgere tutti di quel che quasi tutti sapevano e temevano: che quel ponte era malato, che andava buttato giù e rifatto nuovo prima che cascasse da solo, ma era impossibile perché farne a meno, per tutto il tempo in cui fossero durati i lavori, la città e la regione e gran parte del nordovest si sarebbero ri-spezzati in due, tornando a produrre quello scenario di mezzo secolo fa, quando pure l'intensità dei traffici veicolari e portuali era minore, che aveva appunto reso necessaria la costruzione del ponte.
E ci chiediamo, a bassa voce, se tutto questo tempo senza ponte non sarà non già l'ennesima, ma la definitiva mazzata per una città che da decenni fa soltanto passi indietro, e più guarda a quel che era nel passato e più le vengono le vertigini e la tristezza e lo sgomento.
Le grandi famiglie delle banche e delle industrie e delle navi si sono ritirate nelle rendite, le fabbriche hanno chiuso o si sono ridimensionate, la demografia e le relazioni dell'Auxilium e della Caritas contraddicono la propaganda, mentre neppure il calcio resiste ormai come collaudato oppio dei popoli.
Non è passato ancora un mese e tutto è ricominciato al peggio. Va riconosciuto alle istituzioni locali uno sforzo straordinario encomiabile, rispetto a una situazione dalle molteplici criticità non tutte ricomponibili all'istante o almeno in tempi brevi. Questa del ponte è la cosa peggiore che potesse capitare a Genova oggi, per le questioni dirette e indirette che pone, dall'assistenza ai cittadini colpiti dall'evento alle prospettive di una ricostruzione che non sarà né breve né semplice, a dispetto dei proclami e delle passerelle e dalle tentazioni narcisistiche in cui non pochi, dai reggitori della cosa pubblica fino ai caporali della beneficenza fatta soprattutto per se stessi, sono caduti e vanno cadendo.
Attorno alla Grande Malata, come in una delle più lugubri pagine di quel romanzo gotico e mortuario equivocato per edificante favoletta infantile che è Pinocchio, si affannano dotti, medici e sapienti. Ognuno sospetta dell'altro e tende a metterlo in cattiva luce: chi non governa attacca chi governa più per riflesso pavloviano che in base ad argomenti concreti, attorno al progetto architettonico e ingegneristico si è scatenata una tale ridda di vociferazioni che se io fossi stato Piano me ne sarei stato a Vesima, oppure in barca, e vedetevela voi. E adesso c'è pure la contrapposizione tra governo nazionale e governo locale, sul ruolo della società concessionaria: un ruolo che vale miliardi ed è per questo che sul punto il gioco si è fatto pesante. È importante che la magistratura accerti chi abbia sbagliato e debba pagare; è importante che si riveda e si chiarisca come e perché lo Stato un giorno si sia svegliato e abbia deciso di privatizzare un bene come la rete autostradale che garantiva e avrebbe garantito flussi di cassa praticamente perpetui; ma quel che più di tutto è importante è che al più presto possibile si possa andare di nuovo da Levante a Ponente senza uscire a Genova Ovest e rientrare a Genova Aeroporto e viceversa, ogni giorno che passa vale mille giorni perduti, perché i negozi che presto dovranno chiudere non riapriranno più quando ci sarà il nuovo ponte. Insomma, per una volta le ragioni della contesa politica ed economica, che poi da qualche tempo è la stessa cosa e forse lo è sempre stata anche quando non sembrava, cedano il passo alle ragioni della necessità di salvezza di una comunità che era già allo stremo prima del crollo del ponte.

Non facciamo favole, lasciamo perdere le fantasie, come il Campasso che dovrebbe diventare la Silicon Valley della città e anzi d'Europa, pensiamo umilmente a rimettere a posto i cocci ma facciamo presto, mettiamo al primo posto l'interesse della città a riavere quel ponte nel minor tempo possibile, deponete le armi per favore, avrete tutto il tempo di litigare su altri argomenti, non questo però. A scuola mi insegnarono: primum vivere, deinde philosophari. E qui altro che vivere, si tratterebbe di ritornare a vivere.

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