A
quasi un mese dal crollo del ponte, mentre sotto i colpi di tamburo
del vivere vanno affievolendosi l'emozione collettiva e l'empatia con
le vittime dirette e indirette, i morti e i feriti e gli sfollati e
chi si vede stravolti comunque l'esistenza e il lavoro, Genova e
l'Italia stanno dimostrando perché questa città e questo Paese,
salvo imprevedibili prodigi, siano condannati da se stessi.
Neppure
la più grande tragedia del dopoguerra - la più grande, perché il
suo bilancio è ben lungi dall'essere definito e anzi la contabilità
è appena cominciata, ed è un computo che parte dai morti per
riverberarsi sugli effetti anticiclici socioeconomici, che
ulteriormente deprimeranno qualità della vita urbana e lavoro locale
– abbattutasi sulla città sembra aver riscosso gli animi, chiamato
tutti a un singulto di resipiscenza morale, se non addirittura umana.
Chi
è morto è morto e andrà a finire che era colpa sua, non doveva
passare di lì in quel momento. Chi è sopravvissuto deve ringraziare
di essere sopravvissuto e quindi null'altro pretenda. Chi ha il
negozio o la pompa di benzina o la pizzeria o l'azienda nei dintorni
di quel che resta del ponte si rassegni a veder avvizzire il lavoro
di anni e decenni, ha pescato l'ometto nero e pazienza.
Intanto
pian pianino, neppure troppo pian pianino, ci si comincia ad
accorgere tutti di quel che quasi tutti sapevano e temevano: che quel
ponte era malato, che andava buttato giù e rifatto nuovo prima che
cascasse da solo, ma era impossibile perché farne a meno, per tutto
il tempo in cui fossero durati i lavori, la città e la regione e
gran parte del nordovest si sarebbero ri-spezzati in due, tornando a
produrre quello scenario di mezzo secolo fa, quando pure l'intensità
dei traffici veicolari e portuali era minore, che aveva appunto reso
necessaria la costruzione del ponte.
E
ci chiediamo, a bassa voce, se tutto questo tempo senza ponte non
sarà non già l'ennesima, ma la definitiva mazzata per una città
che da decenni fa soltanto passi indietro, e più guarda a quel che
era nel passato e più le vengono le vertigini e la tristezza e lo
sgomento.
Le
grandi famiglie delle banche e delle industrie e delle navi si sono
ritirate nelle rendite, le fabbriche hanno chiuso o si sono
ridimensionate, la demografia e le relazioni dell'Auxilium e della
Caritas contraddicono la propaganda, mentre neppure il calcio resiste
ormai come collaudato oppio dei popoli.
Non
è passato ancora un mese e tutto è ricominciato al peggio. Va
riconosciuto alle istituzioni locali uno sforzo straordinario
encomiabile, rispetto a una situazione dalle molteplici criticità
non tutte ricomponibili all'istante o almeno in tempi brevi. Questa
del ponte è la cosa peggiore che potesse capitare a Genova oggi, per
le questioni dirette e indirette che pone, dall'assistenza ai
cittadini colpiti dall'evento alle prospettive di una ricostruzione
che non sarà né breve né semplice, a dispetto dei proclami e delle
passerelle e dalle tentazioni narcisistiche in cui non pochi, dai
reggitori della cosa pubblica fino ai caporali della beneficenza
fatta soprattutto per se stessi, sono caduti e vanno cadendo.
Attorno
alla Grande Malata, come in una delle più lugubri pagine di quel
romanzo gotico e mortuario equivocato per edificante favoletta
infantile che è Pinocchio, si affannano dotti, medici e sapienti.
Ognuno sospetta dell'altro e tende a metterlo in cattiva luce: chi
non governa attacca chi governa più per riflesso pavloviano che in
base ad argomenti concreti, attorno al progetto architettonico e
ingegneristico si è scatenata una tale ridda di vociferazioni che se
io fossi stato Piano me ne sarei stato a Vesima, oppure in barca, e
vedetevela voi. E adesso c'è pure la contrapposizione tra governo
nazionale e governo locale, sul ruolo della società concessionaria:
un ruolo che vale miliardi ed è per questo che sul punto il gioco si
è fatto pesante. È importante che la magistratura accerti chi abbia
sbagliato e debba pagare; è importante che si riveda e si chiarisca
come e perché lo Stato un giorno si sia svegliato e abbia deciso di
privatizzare un bene come la rete autostradale che garantiva e
avrebbe garantito flussi di cassa praticamente perpetui; ma quel che
più di tutto è importante è che al più presto possibile si possa
andare di nuovo da Levante a Ponente senza uscire a Genova Ovest e
rientrare a Genova Aeroporto e viceversa, ogni giorno che passa vale
mille giorni perduti, perché i negozi che presto dovranno chiudere
non riapriranno più quando ci sarà il nuovo ponte. Insomma, per una
volta le ragioni della contesa politica ed economica, che poi da
qualche tempo è la stessa cosa e forse lo è sempre stata anche
quando non sembrava, cedano il passo alle ragioni della necessità di
salvezza di una comunità che era già allo stremo prima del crollo
del ponte.
Non
facciamo favole, lasciamo perdere le fantasie, come il Campasso che
dovrebbe diventare la Silicon Valley della città e anzi d'Europa,
pensiamo umilmente a rimettere a posto i cocci ma facciamo presto,
mettiamo al primo posto l'interesse della città a riavere quel ponte
nel minor tempo possibile, deponete le armi per favore, avrete tutto
il tempo di litigare su altri argomenti, non questo però. A scuola
mi insegnarono: primum vivere, deinde philosophari. E qui altro che
vivere, si tratterebbe di ritornare a vivere.
Niente di più vero, purtroppo
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