lunedì 15 ottobre 2018

Voce giunta con le folaghe




Quando mettemmo a nanna tuo padre, eri molto triste e alla sera mi presentai a casa con una bottiglia di Brunello. Ti chiesi di brindare a tuo padre, che aveva vissuto una vita lunga e fortunata tra le sfortune. E così bevemmo alla memoria di Ture. Oggi sono stato io a mettere a nanna te, alla fine dei tre giorni più aspri e tormentosi e orgogliosi della mia vita. Avevi una decina d'anni meno di tuo padre, a settembre il cardiologo ti aveva detto che saresti arrivato a cent'anni e invece è stato proprio il cuore ad azzopparti. Ma io lo so che non è stato il cuore, ma tutto quello che avevi tribolato da quando si era ammalata la mamma. Ora ti posso dire che mi è capitato più volte di incontrare a una cena o a una conferenza alcune ragazze che si erano innamorate di te, ed erano donne ancora molto belle, anzi diciamo pure bellissime, sai di chi parlo, e mi guardavano e mi chiedevano se fossi tuo parente, e io ero fiero di assomigliarti almeno nel nasone, almeno negli occhi, almeno nelle sopracciglia. E io pensavo a quella bambolina bionda che sembrava un angiolino, e che ti aveva portato via a tutte queste signore che avrei incontrato nel tempo, chiedendomi che cosa sarebbe stato di me se non ti fossi innamorato della bambolina bionda che non volevi lasciare, neppure dopo più di mezzo secolo. Sarei stato diverso, non sarei stato io, sarei rimasto un'ipotesi. Invece sono qui, a pensare a te, anche perché da sabato non posso più telefonarti, anche perché il tuo telefono me lo hanno restituito nella stanza degli infermieri nella stessa sacca con cui eravamo andati al pronto soccorso una settimana fa, l'ho spento e non lo riaccenderò mai più. Ed è buffo che l'ultima volta che ti ho visto vivo, l'ultima volta che ci siamo parlati, tu come sempre mi hai rimproverato di non aver fatto le cose al meglio, come le avresti fatte tu, e quasi sempre avevi ragione, però insomma stavolta non era proprio così. Tu mi dicevi, con la voce che ti era rimasta, che ero stato il solito allarmista, che non avrei dovuto farti ricoverare, anzi adesso avresti chiamato il primario per chiedergli di farti andare a casa, non potevi lasciare sola la mamma. Poi invece purtroppo non ero stato il solito allarmista, e così la mattina dopo quando mi hanno telefonato da uno 0185, ero davanti al Park di ritorno da una passeggiata sul mare, e mi hanno detto che ti eri aggravato, ho capito che non sarei riuscito a guardarti negli occhi ancora una volta, sono corso alla stazione sapendo che cosa sarei venuto a fare. E quando ti ho visto, scostando la tenda del tuo letto 32 al quarto piano, ho pensato che avrei voluto dirti: vedi che non ero poi così allarmista? Ti sarebbe piaciuta come battuta. A volte ti piacevano le mie battute, le tue invece mi erano piaciute da sempre, cercavo di studiarti nei momenti in cui non cercavi di farmi da maestro. Quando i tuoi amici mi dicevano che ti assomigliavo, ero contento, anche se sapevo che non era possibile assomigliarti davvero. E insomma così sono andato a casa a prenderti il vestito, e appena aperto l'armadio mi sono intenerito perché c'era un vestito scuro messo da parte, in bella vista, tra le camicie, come se non mi potessi sbagliare, e la cravatta e la camicia sullo stesso appendiabiti, avevi pensato a tutto. Amavi pensare a tutto, non lasciare niente di improvvisato, in questo proprio non ci assomigliamo. Alla bambina bionda non ho detto nulla, da cinque anni e mezzo ormai sta sulla sua nuvola, non è più bionda ma ha ancora quel sorriso tenero e indifeso, non so dirti se abbia capito. Quando si ammalò tu mi dicesti: siamo stati mezzo secolo insieme, io non l'abbandono, piuttosto affondiamo affiancati. Invece non ci sei riuscito, almeno questa cosa l'hai calcolata male, perché con l'idea di non lasciarla sola alla fine l'hai lasciata sola davvero, immolandoti a questa romantica idea di dedizione, e quanto avresti invece potuto ancora vivere, tuo padre era arrivato a novantasei anni e io credevo che tu saresti riuscito a superarlo. Ma in questi momenti, in cui ti scrivo soprattutto per scrivere a me stesso e per superare la desolazione e il vuoto, devo essere sincero e allora ti devo confessare che avevo perso da tempo questa speranza che tu arrivassi a cento e oltre, troppo ti eri logorato per preservare quel che restava della tua bambina bionda, ma io non sono mai riuscito a convincerti a salvare almeno te stesso. E adesso mi manchi, e al tempo stesso sono risentito, perché ti sei rubato a te stesso, mi hai rubato quel tempo che avrei ancora voluto passare con te. Ma non posso essere risentito con te e quindi ti chiedo scusa, sai l'ora è tarda e gli ultimi tre giorni sono stati quel che sono stati, e sai che avevo sempre otto in condotta e non sono mai riuscito non dico a essere perfetto o almeno a provarci, e poi discutere con te era impossibile perché non si vinceva mai. Sapevo che eri molto amato e molto ben voluto, ma tu sapevi anche che io sono introverso e timido, invece mi sono trovato al fronte, a reggere l'onda di tutto l'affetto che ti eri meritato, e che ora mi tornava nella forma delle persone che venivano a salutarti. Però almeno questa non eri tenuto a risparmiarmela, sono semmai io che te la dovevo, come ti dovevo tante altre cose, in questo momento mi sento in grande debito con te e credo che mi ci sentirò sempre. Poi è strano questo moto ondoso della vita che ti porta, nella sua insondabile risacca, davanti a una specie di caleidoscopio che riassume la tua e la mia esistenza: l'uomo che ti ha annodato la tua ultima cravatta era il ragazzo che con me era venuto a San Siro a vedere Chiorri, e tutti e due il giorno prima per avere il permesso avevamo detto ai rispettivi padri che ci avrebbe accompagnato il padre dell'altro. L'uomo che invece ha saldato l'involucro di zinco era il mio solo compagno delle medie che tifasse la nostra stessa squadra di calcio. Tra tutta la gente ho visto anche la mia maestra delle elementari, io la chiamo sempre “signora maestra”. E una ragazza a cui non avevo mai saputo dichiararmi, e un'altra a cui volevo farlo ma forse no, quando si è giovani non si sa bene cosa sia giusto fare e che cosa no, oggi io e loro abbiamo più ricordi che speranze ma è normale quando si scavalla la mezza età. Oggi sotto il platano ho visto anche il tuo amico d'infanzia di cui negli ultimi tempi mi chiedevi sempre, che avevi accompagnato a fare il provino per la Sampdoria dove lui era arrivato a giocare in serie A, finalmente l'ho visto dopo un mucchio di anni, ma non posso più dirti che l'ho visto. Non posso più fare accadere molte cose tra noi, devo affidarmi all'immateriale, devo credere che tu leggerai queste cose che ti sto scrivendo. Te ne avevo scritte altre, stamattina in treno venendo da te, mi spiace ma anche in questi tre giorni sono sempre tornato a dormire a Genova, la casa dove ero nato ha visto troppo dolore perché io mi ci possa soffermare adesso. Ti avevo scritto una cosa che volevo leggere in chiesa, alla fine della funzione, nella chiesa di San Bertumé dove ti avevo riportato, seguendo il tuo cuore, ora che penso al cuore trovo sarcastico che un uomo dal cuore come il tuo sia stato fermato proprio dal cuore. Ti avevo scritto una cosa che cominciava con «Chi sarei stato io, se non avessi visto gli occhi di coloro che vissero prima di me?», l'avevo pensata ieri pomeriggio, ti avevo lasciato nella tua stanza alla morgue ed ero andato ai piedi della collina per vedere dove ti avrebbero messo, e il posto non era lontano dagli occhi che torno spesso a guardare, gli occhi di tuo nonno di cui neppure tuo padre sapeva molto. Era una cosa che cominciava con Sokurov, la bellezza salvata dal male, e finiva con due versi di “Voce giunta con le folaghe”. Pensavo che saresti stato contento, ma poi ci ho ripensato e ho creduto che non fosse il caso di polarizzare una cosa che doveva essere soltanto tua, così ho piegato il foglietto per mettertelo nel taschino della giacca. Ho sollevato il velo, non c'era nessuno in quel momento, ma il taschino era cucito e così ti ho alzato il risvolto della giacca e quel foglietto te l'ho messo sul cuore, di tempo per leggerlo ne avrai. Adesso sono tanto stanco, ho stretto centinaia di mani e abbracciato centinaia di persone e baciato centinaia di volti, perché toccava a me farlo, adesso sono tanto stanco e mi fa male non poterti telefonare per dirti quanta gente ti abbia voluto bene. Allora ho fatto come sedici anni fa, tornando a casa al supermercato ho preso una bottiglia non di Brunello perché non c'era, sempre comunque rosso toscano, ed eccomi qui a brindare da solo, davanti a una sedia vuota, sul tavolo che avevi costruito tu, al figlio di mio nonno, che ha vissuto una vita lunga e fortunata tra le sfortune. Non credo di essere stato un figlio esemplare, aver avuto te come termine di confronto è stato bello, molto impegnativo certo, ma siamo un albero dai rami lunghi e dai frutti difficili. Bevo un bicchiere di rosso toscano perché sono felice che tu ci sia stato tutto questo tempo, perché sono triste che il nostro tempo sia finito, perché avevo fatto questa cosa per tuo padre e ora la faccio per il mio. E ti saluto con le parole che avrei voluto leggere davanti a tutti, ma poi ho pensato di no e te le ho messe sotto la giacca, mi avevi insegnato ad amare la letteratura e la musica e l'arte e ti dovevo un congedo in linea con quello che era stato tra noi. A tuo padre, ti ricordi?, avevo messo il biglietto con le parole «vecchio padre, vecchio artefice, facci ora e sempre buona guardia». Quando si è trattato di te, ho pensato al racconto che mi avevi fatto della volta che durante la guerra eri uscito indenne da un campo minato a Pian Pontasco. Ti eri salvato, per arrivare alla bambina bionda, a noi, a me che ora non so come farò, senza averti che in idea e nostalgia. E avevo scritto le parole di Montale che ora porti sul cuore: “Ho pensato per te, ho ricordato per tutti. Ora ritorna al cielo libero che ti tramuta”.

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