Quando
mettemmo a nanna tuo padre, eri molto triste e alla sera mi presentai
a casa con una bottiglia di Brunello. Ti chiesi di brindare a tuo
padre, che aveva vissuto una vita lunga e fortunata tra le sfortune.
E così bevemmo alla memoria di Ture. Oggi sono stato io a mettere a
nanna te, alla fine dei tre giorni più aspri e tormentosi e
orgogliosi della mia vita. Avevi una decina d'anni meno di tuo padre,
a settembre il cardiologo ti aveva detto che saresti arrivato a
cent'anni e invece è stato proprio il cuore ad azzopparti. Ma io lo
so che non è stato il cuore, ma tutto quello che avevi tribolato da
quando si era ammalata la mamma. Ora ti posso dire che mi è capitato
più volte di incontrare a una cena o a una conferenza alcune ragazze
che si erano innamorate di te, ed erano donne ancora molto belle,
anzi diciamo pure bellissime, sai di chi parlo, e mi guardavano e mi
chiedevano se fossi tuo parente, e io ero fiero di assomigliarti
almeno nel nasone, almeno negli occhi, almeno nelle sopracciglia. E
io pensavo a quella bambolina bionda che sembrava un angiolino, e che
ti aveva portato via a tutte queste signore che avrei incontrato nel
tempo, chiedendomi che cosa sarebbe stato di me se non ti fossi
innamorato della bambolina bionda che non volevi lasciare, neppure
dopo più di mezzo secolo. Sarei stato diverso, non sarei stato io,
sarei rimasto un'ipotesi. Invece sono qui, a pensare a te, anche
perché da sabato non posso più telefonarti, anche perché il tuo
telefono me lo hanno restituito nella stanza degli infermieri nella
stessa sacca con cui eravamo andati al pronto soccorso una settimana
fa, l'ho spento e non lo riaccenderò mai più. Ed è buffo che
l'ultima volta che ti ho visto vivo, l'ultima volta che ci siamo
parlati, tu come sempre mi hai rimproverato di non aver fatto le cose
al meglio, come le avresti fatte tu, e quasi sempre avevi ragione,
però insomma stavolta non era proprio così. Tu mi dicevi, con la
voce che ti era rimasta, che ero stato il solito allarmista, che non
avrei dovuto farti ricoverare, anzi adesso avresti chiamato il
primario per chiedergli di farti andare a casa, non potevi lasciare
sola la mamma. Poi invece purtroppo non ero stato il solito
allarmista, e così la mattina dopo quando mi hanno telefonato da uno
0185, ero davanti al Park di ritorno da una passeggiata sul mare, e
mi hanno detto che ti eri aggravato, ho capito che non sarei riuscito
a guardarti negli occhi ancora una volta, sono corso alla stazione
sapendo che cosa sarei venuto a fare. E quando ti ho visto, scostando
la tenda del tuo letto 32 al quarto piano, ho pensato che avrei
voluto dirti: vedi che non ero poi così allarmista? Ti sarebbe
piaciuta come battuta. A volte ti piacevano le mie battute, le tue
invece mi erano piaciute da sempre, cercavo di studiarti nei momenti
in cui non cercavi di farmi da maestro. Quando i tuoi amici mi
dicevano che ti assomigliavo, ero contento, anche se sapevo che non
era possibile assomigliarti davvero. E insomma così sono andato a
casa a prenderti il vestito, e appena aperto l'armadio mi sono
intenerito perché c'era un vestito scuro messo da parte, in bella
vista, tra le camicie, come se non mi potessi sbagliare, e la
cravatta e la camicia sullo stesso appendiabiti, avevi pensato a
tutto. Amavi pensare a tutto, non lasciare niente di improvvisato, in
questo proprio non ci assomigliamo. Alla bambina bionda non ho detto
nulla, da cinque anni e mezzo ormai sta sulla sua nuvola, non è più
bionda ma ha ancora quel sorriso tenero e indifeso, non so dirti se
abbia capito. Quando si ammalò tu mi dicesti: siamo stati mezzo
secolo insieme, io non l'abbandono, piuttosto affondiamo affiancati.
Invece non ci sei riuscito, almeno questa cosa l'hai calcolata male,
perché con l'idea di non lasciarla sola alla fine l'hai lasciata
sola davvero, immolandoti a questa romantica idea di dedizione, e
quanto avresti invece potuto ancora vivere, tuo padre era arrivato a
novantasei anni e io credevo che tu saresti riuscito a superarlo. Ma
in questi momenti, in cui ti scrivo soprattutto per scrivere a me
stesso e per superare la desolazione e il vuoto, devo essere sincero
e allora ti devo confessare che avevo perso da tempo questa speranza
che tu arrivassi a cento e oltre, troppo ti eri logorato per
preservare quel che restava della tua bambina bionda, ma io non sono
mai riuscito a convincerti a salvare almeno te stesso. E adesso mi
manchi, e al tempo stesso sono risentito, perché ti sei rubato a te
stesso, mi hai rubato quel tempo che avrei ancora voluto passare con
te. Ma non posso essere risentito con te e quindi ti chiedo scusa,
sai l'ora è tarda e gli ultimi tre giorni sono stati quel che sono
stati, e sai che avevo sempre otto in condotta e non sono mai
riuscito non dico a essere perfetto o almeno a provarci, e poi
discutere con te era impossibile perché non si vinceva mai. Sapevo
che eri molto amato e molto ben voluto, ma tu sapevi anche che io
sono introverso e timido, invece mi sono trovato al fronte, a reggere
l'onda di tutto l'affetto che ti eri meritato, e che ora mi tornava
nella forma delle persone che venivano a salutarti. Però almeno
questa non eri tenuto a risparmiarmela, sono semmai io che te la
dovevo, come ti dovevo tante altre cose, in questo momento mi sento
in grande debito con te e credo che mi ci sentirò sempre. Poi è
strano questo moto ondoso della vita che ti porta, nella sua
insondabile risacca, davanti a una specie di caleidoscopio che
riassume la tua e la mia esistenza: l'uomo che ti ha annodato la tua
ultima cravatta era il ragazzo che con me era venuto a San Siro a
vedere Chiorri, e tutti e due il giorno prima per avere il permesso
avevamo detto ai rispettivi padri che ci avrebbe accompagnato il
padre dell'altro. L'uomo che invece ha saldato l'involucro di zinco
era il mio solo compagno delle medie che tifasse la nostra stessa
squadra di calcio. Tra tutta la gente ho visto anche la mia maestra
delle elementari, io la chiamo sempre “signora maestra”. E una
ragazza a cui non avevo mai saputo dichiararmi, e un'altra a cui
volevo farlo ma forse no, quando si è giovani non si sa bene cosa
sia giusto fare e che cosa no, oggi io e loro abbiamo più ricordi
che speranze ma è normale quando si scavalla la mezza età. Oggi
sotto il platano ho visto anche il tuo amico d'infanzia di cui negli
ultimi tempi mi chiedevi sempre, che avevi accompagnato a fare il
provino per la Sampdoria dove lui era arrivato a giocare in serie A,
finalmente l'ho visto dopo un mucchio di anni, ma non posso più
dirti che l'ho visto. Non posso più fare accadere molte cose tra
noi, devo affidarmi all'immateriale, devo credere che tu leggerai
queste cose che ti sto scrivendo. Te ne avevo scritte altre,
stamattina in treno venendo da te, mi spiace ma anche in questi tre
giorni sono sempre tornato a dormire a Genova, la casa dove ero nato
ha visto troppo dolore perché io mi ci possa soffermare adesso. Ti
avevo scritto una cosa che volevo leggere in chiesa, alla fine della
funzione, nella chiesa di San Bertumé dove ti avevo riportato,
seguendo il tuo cuore, ora che penso al cuore trovo sarcastico che un
uomo dal cuore come il tuo sia stato fermato proprio dal cuore. Ti
avevo scritto una cosa che cominciava con «Chi sarei stato io, se
non avessi visto gli occhi di coloro che vissero prima di me?»,
l'avevo pensata ieri pomeriggio, ti avevo lasciato nella tua stanza
alla morgue ed ero andato ai piedi della collina per vedere dove ti
avrebbero messo, e il posto non era lontano dagli occhi che torno
spesso a guardare, gli occhi di tuo nonno di cui neppure tuo padre
sapeva molto. Era una cosa che cominciava con Sokurov, la bellezza
salvata dal male, e finiva con due versi di “Voce giunta con le
folaghe”. Pensavo che saresti stato contento, ma poi ci ho
ripensato e ho creduto che non fosse il caso di polarizzare una cosa
che doveva essere soltanto tua, così ho piegato il foglietto per
mettertelo nel taschino della giacca. Ho sollevato il velo, non c'era
nessuno in quel momento, ma il taschino era cucito e così ti ho
alzato il risvolto della giacca e quel foglietto te l'ho messo sul
cuore, di tempo per leggerlo ne avrai. Adesso sono tanto stanco, ho
stretto centinaia di mani e abbracciato centinaia di persone e
baciato centinaia di volti, perché toccava a me farlo, adesso sono
tanto stanco e mi fa male non poterti telefonare per dirti quanta
gente ti abbia voluto bene. Allora ho fatto come sedici anni fa,
tornando a casa al supermercato ho preso una bottiglia non di
Brunello perché non c'era, sempre comunque rosso toscano, ed eccomi
qui a brindare da solo, davanti a una sedia vuota, sul tavolo che
avevi costruito tu, al figlio di mio nonno, che ha vissuto una vita
lunga e fortunata tra le sfortune. Non credo di essere stato un
figlio esemplare, aver avuto te come termine di confronto è stato
bello, molto impegnativo certo, ma siamo un albero dai rami lunghi e
dai frutti difficili. Bevo un bicchiere di rosso toscano perché sono
felice che tu ci sia stato tutto questo tempo, perché sono triste
che il nostro tempo sia finito, perché avevo fatto questa cosa per
tuo padre e ora la faccio per il mio. E ti saluto con le parole che
avrei voluto leggere davanti a tutti, ma poi ho pensato di no e te le
ho messe sotto la giacca, mi avevi insegnato ad amare la letteratura
e la musica e l'arte e ti dovevo un congedo in linea con quello che
era stato tra noi. A tuo padre, ti ricordi?, avevo messo il biglietto
con le parole «vecchio padre, vecchio artefice, facci ora e sempre
buona guardia». Quando si è trattato di te, ho pensato al racconto
che mi avevi fatto della volta che durante la guerra eri uscito
indenne da un campo minato a Pian Pontasco. Ti eri salvato, per
arrivare alla bambina bionda, a noi, a me che ora non so come farò,
senza averti che in idea e nostalgia. E avevo scritto le parole di
Montale che ora porti sul cuore: “Ho pensato per te, ho ricordato
per tutti. Ora ritorna al cielo libero che ti tramuta”.
Nessun commento:
Posta un commento